Fu oggetto di forte critica. Il Principe fu inserito fin dal 1559 nell’Indice dei libri proibiti. Solo in epoca illuministica venne rimossa la condanna che pesava su di lui. Rousseau, nel Contratto sociale (1762) indicò il Principe come “il libro dei repubblicani”, forzando la realtà storica. Idea poi ripresa in Italia da Ugo Foscolo nei Sepolcri.
Da Sanctis vide in Machiavelli “la faccia moderna dell’uomo che opera e lavora intorno a uno scopo” (Storia della letteratura italiana, 1870-71). All’inizio del Novecento, Benedetto Croce riconosce a Machiavelli il merito di aver affermato la reciproca autonomia tra politica e morale. Tuttavia, rileva il limite della mancata indagine sul legame tra sfera politica e altre attività spirituali.
Antonio Gramsci, nei suoi appunti considera il Principe come un “libro vivente”, un’opera che non può essere analizzata in prospettiva e che impone al lettore una posizione politica, uno schierarsi.
Più recentemente Carlo Dionisotti (Machiavellerie, 1980) afferma che Machiavelli ha cercato nella letteratura militante una ragione di vita. Dai Discorsi all’arte della guerra ha vagheggiato una soluzione della crisi italiana attraverso un modello (la antica tradizione politica fiorentina) opposto agli sviluppi cortigiani dominanti.
Hans Baron ed Eugenio Garin mettono in rilievo (anni 1960): il ricorso agli esempi degli antichi come caposaldo di analisi. Mario Martelli e Gennaro Sasso (Niccolò Machiavelli, 1993) e Giorgio Inglese (edizione critica de Il Principe, 1994) sono le ultime riflessioni su Machiavelli.