Lo sviluppo cinese.

Li_Keqiang_2012
Li_Keqiang_2012

Comincio un excursus sul caso cinese e sul suo sviluppo capitalistico che non potrà non avere delle ripercussioni sul piano dell’ideologia dei quel paese. E già ce l’ha. Anche sul piano della scelta della più adatta economia politica per governare il paese, delle scelte – riflesso ideologico dei cambiamenti strutturali incorsi negli ultimi decenni – sono già operative. Dall’economia di piano al neo-liberismo c’è una continuità e si chiama profitto, risultato di un rapporto di capitale lì instaurato. E mai superato. Ho già notato come il gigante cinese non sia propriamente un caso da manuale dell’economia politica capitalistica, discostandosene per molte cose, in verità, ma contenga elementi di capitalismo assolutamente non selvaggio ma del tutto pianificato al suo interno. Come sapete, il piano in economia non è appannaggio del solo socialismo ma anche del capitalismo. Ad esempio la Germani è un paese dove il piano capitalistico ha avuto e continua ad avere una coerente applicazione.

La Cina sta espandendosi da circa vent’anni al tasso medio annuale del 9%/10%. Ultimamente al 7,5% poi ricorretto al 7,8%. Tutte cifre di difficilissmo controllo, anzi da prendere con le pinze e in fiducia, vista la totale opacità delle istituzioni cinesi al riguardo. La Banca Mondiale prevedeva che intorno al 2010 il prodotto interno lordo cinese avrebbe superato quello americano portando il paese al primo posto nel mondo. Sembra sia già in atto il sorpasso. Tuttavia tenendo presente la differenze di popolazione fra i due paesi, la Cina figura come un paese ancora povero rispetto ai canoni occidentali.

Il pil pro capite è passato dai 248 renminbi del 1970, ai 1.633 del 1990, ai 6.648 del 1999 e continua a crescere. Analizzando sinteticamente le componenti endogene dello sviluppo, si nota che il peso del settore industriale e dei servizi è in continua crescita (+9,9% medio tra il 1979 e il 1991) mentre l’agricoltura è in progressivo declino (+5,3% medio nello stesso periodo). La Cina – in ogni caso – continua ad essere uno dei più grossi produttori agricoli del mondo. Si tratta del risultato del processo di de-collettivizzazione delle imprese agricole avviato nel 1974 che ha parcellizzato la proprietà della terra, riducendo di conseguenza la produttività del lavoro, e ha dato il via al fenomeno della fuga dei contadini nelle città a causa delle loro crescenti difficoltà economiche. Il settore industriale è stato riformato nel 1979 (con una decisa accelerazione nel 1984 quando si è deciso di incentivare l’investimento dall’estero), anno in cui si è avviato il processo di liberalizzazione economica che ha portato progressivamente lo Stato a perdere la proprietà di circa il 50% delle industrie. In circa vent’anni l’economia di piano, controllata dallo Stato e comprendente le industrie di grandi dimensioni, si è ridotta considerevolmente passando così da una generazione del 77,6% dell’intero prodotto industriale lordo al 25% circa. Nello stesso periodo le imprese collettive, caratterizzate da piccole dimensioni e bassa tecnologia, economicamente svincolate dall’economia di piano e gestite in funzione del mercato soprattutto locale, sono passate dal 22,4% al 35-40%. Notevole anche lo sviluppo, a partire dagli anni ‘90, delle imprese private e a capitale straniero che, ovviamente, si sono collocate nei settori più innovativi e tecnologicamente avanzati del mercato. Queste sono passate da un modesto 4,4% del 1990 a un più deciso 17,9% del 1997 ma possiamo ritenere che successivamente questo settore abbia registrato un vero e proprio boom dato l’afflusso enorme di capitali esteri degli ultimi anni. Il dato importante è che oltre ai settori manifatturieri tradizionali la Cina si sta notevolmente sviluppando nei settori della meccanica, dei mezzi di trasporto, della chimica e dell’alimentare. Nonché dell’alta tecnologia. Anche lo sviluppo dei consumi evidenzia la peculiarità dello sviluppo cinese; ad esempio, nel paese vi è una progressiva diffusione della telefonia fissa accanto a quella mobile, fondata sull’uso dei telefoni cellulari più avanzati. Oggi i consumi, soprattutto nelle città, sono un buon indicatore di questo fenomeno: ai cosiddetti quattro lussi del periodo maoista (orologio, bicicletta, radio e macchina da cucire) si sono sostituiti i sette attuali costituiti da televisione a colori, videoregistratore, frigorifero, lavatrice, telefono, macchina fotografica e cellulare. Così, accanto a un’economia arretrata basata su consumi limitati e di poco valore, presente soprattutto nelle zone rurali, si sviluppa sempre più nelle città un’economia più simile a quella avanzata dei paesi occidentali. Questo è anche un indicatore dell’ideologia che domina le masse cinesi, occidentalizzate non in base ad un complotto occidentale ma in base a delle scelte obbligate, in mancanza di un passaggio integrale a completo allo stadio socio-economico socialista, anche qui non per un complotto occidentale ma per la sempre maggiore debolezza delle classi subalterne e del partito che le rappresentavano, non sempre coerentemente. In tutto ciò non è da sottovalutare il ruolo non sempre all’altezza della situazione del maoismo come riproposizione dello stalinismo in politica ed in economia.

I risultati delle riforme – comunque – sono sorprendenti; i flussi commerciali della Cina con il resto del mondo aumentano fortemente facendo registrare un surplus di 16,7 miliardi di dollari nel 1995,12,3 miliardi nel 1996,40,3 miliardi nel 1997 (anno in cui <span> </span>tra l’altro esplode la crisi finanziaria asiatica), 42,8 miliardi nel 1998 e solo 29,16 miliardi nel 1999. In sintesi la quota di esportazioni cinesi nel mondo è passata dall’1% del 1950 al 5 % del 2002. Nello stesso anno, se si considerano i flussi commerciali tra la Cina, gli Usa, il Giappone e l’Europa si vede come il paese ha in ogni caso un surplus, particolarmente marcato con gli Usa con i quali, a fronte di importazioni per 22 miliardi di dollari, ha esportazioni per ben 134 miliardi di dollari. Più equilibrato il rapporto col Giappone dal quale importa per 53 miliardi e ne esporta per 62. Dall’Europa invece la Cina importa per 32 miliardi di dollari ma esporta per 77 miliardi.

Fonti: Il Sole 24 ore, Le Monde Diplomatique, Il Manifesto, La Repubblica.

 

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