Tsipras, Socrate e Platone.

Partenone
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Tre uomini che nient’altro hanno in comune se non l’essere nati tutti e tre sotto il sole greco, nel mezzogiorno d’Europa. Tre uomini di valore radicalmente dissimile, ma le cui azioni possono essere comunque sottoposte al vaglio della storia e della filosofia classiche, così ben rappresentate dal loro paese d’origine.

Il tema è quello dei sei mesi di governo di Syriza, dell’epilogo del referendum e della firma di Tsipras all’accordo e dei successivi mesi di governo. Ricordate?

Cominciamo col dire che Socrate e Platone sono due filosofi molto diversi, direi diametralmente opposti. Uomo pienamente inserito nella polis ateniese il primo; elitario il secondo. Uomo che vive anche nel contrasto con i suoi simili, ma convinto che attraverso di esso si possa costruire qualcosa, nel primo caso; teorico della Repubblica il secondo, summa antidemocratica per eccellenza, in cui dei re filosofi governano per conto del popolo, sostanzialmente incapace di saggezza ed equilibrio.

Durante quei sei mesi di governo Tsipras siamo stati testimoni di un’estenuante quanto inutile trattativa con le istituzioni finanziarie europee. Inutile perché in mancanza di una sovranità ellenica, peraltro alienata almeno un quindicennio fa, diventava esiziale pretendere di sedersi al tavolo delle trattative con i pezzi da novanta della finanza mondiale.

Di questa mancanza di un piano B, Tsipras porta e porterà la responsabilità più piena, come anche del non aver preparato il suo popolo alla mancanza di sovranità.

Questi tre uomini hanno fatto, a modo loro, la storia. Che cos’è la storia? La storia è essenzialmente creazione e distruzione. Creazione significa qualcosa di diversissimo dall’indeterminazione oggettiva o dall’imprevedibilità soggettiva degli eventi  e del corso della storia. Osserviamo come sia risibile dire che l’apparizione della tragedia fosse imprevedibile e sappiamo quanto sia stupido vedere nella Passione secondo Matteo di Bach un effetto dell’indeterminazione della storia.  La storia è il campo in cui l’essere umano crea forme ontologiche, come dopotutto lo sono la stessa storia o la stessa società.

Creazione non significa necessariamente un qualcosa di buono oppure di positivo: Auschwitz e i Gulag sono creazioni quanto il Partenone o i Principia Mathematica. Tuttavia, tra tutte le creazioni della nostra storia, la storia greco-occidentale, ce n’è una che facciamo totalmente nostra: la messa in discussione, la critica, il lògon didònai, il render conto e dar ragione. Parliamo del fondamento della filosofia e della politica.

Si tratta di una posizione umana fondamentale ed inizialmente per niente universale. Essa implica che non c’è alcuna istanza extra-umana responsabile per ciò che succede nella storia, che la storia non è fatta da Dio o dalle “leggi”. I Greci hanno creato la democrazia perché non credevano in tali determinazioni extra-storiche, al di fuori del limite estremo dell’Anànke.

Chi vuole fare il mondo si inserisce in questa tradizione di critica radicale, nella quale va inclusa la tradizione della responsabilità (non si può incolpare Dio) e di auto-limitazione (non si può evocare una norma extra-storica per dare una regola alle nostre azioni). Siamo attori critici del presente, del futuro e persino del passato. Non possiamo cambiare ciò che è stato mentre possiamo cambiare il nostro sguardo su ciò che è stato. Nel presente possiamo contribuire al fatto che ciò che è sia altrimenti.

Quei tre uomini hanno influito attraverso l’uso della parola e la formulazione esplicita di idee generali, sull’evoluzione della loro società e/o sul corso della storia. Qui risaltano brevemente 3 punti: 1) vi sono due tipi diversi di rapporto tra il pensatore e la comunità politica esemplificati dall’opposizione radicale tra Socrate, il filosofo della città, e Platone, il filosofo che si vuole porre al di sopra della città; 2) la tendenza che si è completamente impadronita dei filosofi da una certa fase storica in poi, a razionalizzare il reale, cioè a legittimarlo; 3) la necessità di conciliare la concezione del filosofo cittadino e del suo ruolo di coscienza critica  con il fatto che la grande maggioranza degli uomini e delle donne sono la fonte della creazione, i depositari principali dell’immaginario istituente e devono diventare i soggetti attivi della politica.

L’ultimo dei grandi filosofi cittadini è stato Socrate. Egli è sia filosofo che cittadino. Discute con tutti i suoi concittadini nell’agorà. Ha famiglia e figli. Prende parte a ben tre spedizioni militari. Assume anche la magistratura suprema, diventa epistate dei pritani (presidente della Repubblica per un giorno), nel momento forse più tragico della storia della democrazia ateniese: il giorno del processo ai generali vincitori della battaglia delle Arginuse, in cui, da presidente dell’assemblea popolare, sfida la folla inferocita rifiutandosi di avviare illegalmente il procedimento contro i generali. Analogamente alcuni anni dopo si rifiuterà di obbedire agli ordini dei Trenta Tiranni e di arrestare illegalmente un cittadino.

Tuttavia, l’operato di Socrate travalica i limiti di quanto può essere tollerato in democrazia che è un regime esplicitamente fondato sulla dòxa, sull’opinione, la cui confutazione è permessa e legittima ed è l’ossigeno della vita pubblica. Socrate, però, non si limita a mostrare quanto le opinioni siano erronee, ma anche che chi le difende non sa quello che dice. Chiaramente, nessuna vita in società e nessun regime politico e meno che mai la democrazia sarebbero mai possibili sulla base dell’ipotesi che tutti i partecipanti vivano in un mondo di miraggi incoerenti, come invece dimostra costantemente Socrate. Egli, tuttavia, sapeva benissimo che i nodi sarebbero prima o poi venuti al pettine e non aveva bisogno che nessuno gli scrivesse un’Apologia, visto che ha passato la vita a riflettere sull’apologia che avrebbe presentato se lo avessero accusato. Il suo discorso nel Critone non è un’arringa moralistica ed edificante, ma uno sviluppo magnifico della determinante idea greca della formazione dell’individuo attraverso la città. Per inciso, tecnicamente, Socrate è condannato e messo a morte con l’accusa di corrompere i giovani inducendoli alla mancanza di rispetto agli dèi della città. Si tratta di un’accusa mossagli anni prima nella commedia di Aristofane, citata nel capitolo III°, dove lo scandalo è esemplificato in termini di una delle questioni più caratteristiche di Anassimandro: il fulmine lo invia Zeus o viene da un vortice di vento?

Platone tradisce lo spirito del maestro in modo totale. Si ritira dalla città, vi stabilisce una scuola per discepoli scelti. Non partecipa ad alcuna campagna militare. Non ha famiglia. Alla sua città, la città che lo ha nutrito e reso un filosofo, non ha dato nulla: non il servizio militare, non figli, non l’accettazione di cariche pubbliche. Al contrario calunnia Atene al massimo grado. Grazie alle sue capacità di regista, retore, sofista e demagogo, riuscirà ad imporre per i secoli successivi la seguente immagine: gli uomini politici di Atene (Temistocle, Pericle) erano dei demagoghi, i suoi pensatori erano solo sofisti (secondo il suo punto di vista), i poeti erano corruttori della città, il suo popolo un umile gregge vittima di passioni e illusioni. Platone falsifica consapevolmente la storia: non parla della battaglia di Salamina, della vittoria di Temistocle e dello spregevole demos dei rematori. Egli intende fondare una città senza tempo e senza storia, governata non dal proprio popolo, ma dai “filosofi”.

Platone si esibisce allora per primo in quella deformazione che poi caratterizzerà tanto spesso gli intellettuali: vuole essere consigliere del principe, cioè del tiranno, fallendo clamorosamente (prende fischi per fiaschi) e scambia i due Dionigi, tiranni di Siracusa, per re-filosofi in potenza, allo stesso modo in cui ventitré secoli dopo Heidegger prenderà Hitler e il nazismo per incarnazioni dello spirito del popolo tedesco e della resistenza istoriale contro il regno della tecnica.

Platone dunque inaugura l’era dei filosofi che si chiamano fuori della città pretendendo tuttavia di dettarle le leggi, ignorando completamente la creatività istituente del popolo. Impotente politicamente non vuole altro che essere consigliere del principe. Egli inoltre razionalizza il reale, cioè legittima i poteri esistenti. Tale caratteristica inizia ancor prima di lui, e gli stoici ne rappresentano i germi. Si tratta di un atteggiamento che si ricollega indubbiamente  alle fasi arcaiche e tradizionali della storia umana, per le quali le istituzioni erano sacre. La filosofia, quindi, invece di mettere in discussione l’esistente, viene posta al servizio di quest’ordine.

Tsipras, allora, anche rispetto a queste malefatte, appare piccolo ed impotente, messo di fronte a forze soverchianti. Certo non avrebbe potuto essere un eroe come Socrate e non lo si poteva nemmeno pretendere, mentre non è nemmeno riuscito a porsi fino in fondo nel solco di Platone, anche se il suo adorare il fatto compiuto e il non opporsi seriamente alla deriva rimangono pienamente nel solco sifilitico platonico. Nano in mezzo a due giganti, espressi da un’epoca diversa nella sua stessa area geografica, due personaggi di peso e segno certamente molto diversi, è probabile che fra qualche anno nessuno si ricorderà nemmeno di chi fosse. Questione forse comune ad un’intera generazione di contemporanei.

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