Quando parliamo di culture. In ricordo di Mouhammadou Ndiaye.

Isfahan, Iran
Isfahan, Iran

di Sergio Mauri

Mouhammadou, dopo averti stretto la mano, appoggia la propria sul cuore. Gli hai toccato il cuore, sei entrato nella sua anima, sei parte di lui e, ricco e consapevole di questa relazione, egli – di conseguenza – si comporterà con te. Tu, invece, secondo i dettami della tua morale, coerente col costume del tuo mondo, non gli permetterai di accomodarsi nel giardino della tua anima, di albergare nel tuo cuore: non così presto almeno. Tu costruirai un confine per mezzo del quale lo terrai a debita distanza da te. Il palmo della tua mano toccherà il suo e tutto finirà lì. E’ già tanto per te e per i tuoi simili a queste latitudini.

Dopotutto dicono, diciamo, sono molte le cose che ci separano: pelle, cultura, lingua, costumi, società, politica. Certo, dentro siamo tutti uguali, la pianta dei piedi ed i palmi delle nostre mani sono uguali. Ma il problema è proprio questo, andare oltre la superficie delle cose, oltre le apparenze. E perché poi? Ci si guadagna qualcosa ad andare in profondità? La domanda di cui tenere conto è questa. Siamo costretti a tenerne conto.

Tuttavia, qui non si tratta solo di Mouhammadou, senegalese di Pikine, ma anche di Hossein, iraniano di Tehran che, pure lui, a 53 anni mi saluta con un sorriso ingenuo e disarmante appoggiandosi la mano sul cuore. Quando chiede un favore lo fa con dolcezza e ti lascia tutto il tempo di organizzarti per soddisfarlo. La grazia posseduta da questi due uomini è incredibile. Hossein ha una moglie. Ogni tanto viene a trovarlo. Indossa il velo islamico, tuttavia è lei ad impartire gli ordini, come molto spesso succede anche qui in Occidente, e non lui. Non c’è volgarità, pretenziosità, spocchia in loro. Vengono da mondi non solo diversi dal nostro, ma pure diversi fra loro stessi. Mondi, i loro, con meno oggetti materiali e superflui, con culture migliorabili, ma non rese del tutto irriconoscibili dalla forza corruttrice del danaro e del possesso. Mondi, dove le radici sono più profonde delle nostre e non basta l’inondazione di oggetti e stili di vita mercificati a sradicarle. A riprova di ciò, dobbiamo ricordare che non è la mancanza di tecnologia o una presunta arretratezza a renderli così (Internet o la TV sono presenti pure lì, come anche le automobili e le griffe), ma la forza originaria della loro cultura profonda in confronto alla fragilità della nostra che è stata soppiantata così facilmente da una promessa tanto falsa quanto irrealizzabile di trasformarci tutti in personaggi da saga americana.

A grandi linee era questo che sosteneva Roberto Calasso, della Casa Editrice Adelphi, le cui parole ho ritrovato nella mia esperienza quotidiana. Calasso, parlando del Veda, un popolo che ha lasciato quasi solo tracce scritte, diceva che essi sono ancora tra noi nei rituali degli induisti che a milioni ogni giorno eseguono gli stessi movimenti nell’atto di adorare le loro divinità. Ed osservava, Calasso, il fatto che in Occidente nessuno più pregava come facevano gli antichi greci e a spiegazione di ciò sosteneva che la spinta iniziale alla cultura del Veda fu infinitamente più grande di quella dei greci dell’antichità, tanto più grande da riuscire ad influenzare anche i gesti quotidiani di centinaia di milioni di persone in un paese che ha industrie avanzate ed un know how tecnologico rispettabile.

 

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022 e Silele Edizioni (La Tela Nera) nel 2023.
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