Noi e l’austerità.

Austerità
Austerità

di Sergio Mauri

Sono passati ormai quindici anni dall’esplosione della bolla di subprime in America e la sinistra è fuori dalla scena politica. Le misure di austerità sono state ampiamente implementate dai governi europei senza alcun tipo di resistenza visibile, Grecia esclusa. In contemporanea, abbiamo un governo a guida PD che rappresenta al meglio la necessità dei tagli e dell’austerità, un governo che ha implementato le misure in chiave neoliberista.

Perché è successo tutto ciò? Credo che questa situazione sia determinata, in parte, dalla mancata comprensione di che cosa rappresenti questa crisi; in parte, dal fatto che la sinistra e tutta la società, nel suo complesso, è cambiata.

Che cos’è l’austerità? È un progetto che, in prima battuta, incontra una crisi. Una crisi multilivello del capitalismo mondiale. L’austerità è una strategia di classe, una strategia della classe dominante. Non stiamo comunque parlando di una crisi passeggera come quelle passate. Parliamo di una crisi profonda, organica del capitale che si abbatte sullo Stato, sulle istituzioni dominanti, che crea un malcontento diffuso e potenzialmente minaccioso per la classe dominante. Ed è proprio per questi motivi che la classe dominante fa dell’austerità, una questione politica strategica che dovrà ridisegnare i rapporti di forza nella società per i prossimi decenni. Classe dominante che, tuttavia, su questo specifico terreno gode di vantaggi enormi: dalla gestione esclusiva dei media ai think tank politici, un concentrato spaventoso di potere economico e politico, le forze della repressione, la finanza. Tutto convergente al sostegno del proprio potere. La classe dominante ha un vantaggio spaventoso in termini di mobilitazione, in termini di capacità di risposta alla propria crisi.

In Italia, dopo l’evaporazione berlusconiana e l’avvento di “gente seria”, abbiamo capito subito quali termini avrebbe avuto la mobilitazione a sostegno del sistema. Ci dicevano, quindi, non esserci un problema di recessione o di crisi del capitalismo. No, si trattava di una crisi del debito pubblico. Al tempo stesso, costoro parlavano delle spese dei politici, delle furfanterie degli amministratori pubblici, dei falsi invalidi e così via. Si trattava, e si tratta, di una grossa operazione ideologica attraverso la quale si incolpa(va) tutta la classe politica evitando al tempo stesso di toccare seriamente le istituzioni dominanti, espungendo dal discorso politico ogni forma di critica radicale.

Ancora una volta la burocrazia statale dei livelli medio-bassi ha funto da capro espiatorio di tutta l’operazione, e la si invitava a redimersi assoggettandosi alle forze del mercato. Tutto il settore pubblico, eccezion fatta per l’alta burocrazia statale, andava attaccata in nome della sopravvivenza del mercato. Le privatizzazioni, le svendite di pezzi del settore pubblico, ancora una volta hanno trovato nuova vita in questo contesto.

Questa risposta della classe dominante è stata sia una risposta alla crisi capitalistica che un modo di intercettare gli interessi della parte più tradizionale della propria classe. Si tratta, però, anche di far ripartire il sistema, si tratta di renderlo profittevole. Si tratta, ancora, di trovare risorse per rendere operativo uno schema che funzioni per la classe dominante, uno schema di crescita sufficiente a garantirne una profttabilità interessante. A livello globale, dopo la ricostruzione post-bellica, non è stato facile raggiungere i livelli di profittabilità di allora, ma la globalizzazione ha fornito nuovi strumenti per sostenere i profitti del grande capitale. Ciò, soprattutto, si è verificato grazie a quelle aree del sudest asiatico che maggiormente hanno contribuito al sostegno dei profitti. Dal mio punto di vista la classe dominante è abbastanza contenta di questi anni di crisi in cui la crescita è stata sospesa, e al termine del processo socio-economico in atto vi sarà una ridefinizione generale in termini di potere, che passerà decisamente nelle mani delle multinazionali e degli investitori, in contrapposizione a quelle dei lavoratori e dei consumatori.

Vi è una certa responsabilità da parte dei gruppi della sinistra più estrema e, se vogliamo, più consapevole, nel non aver ricercato l’unità con un insieme di gruppi di una sinistra più ampia, dalla caratterizzazione democratica, per riuscire a contrapporre al sistema un’agenda anti-austerità. Ma perché la sinistra si è dimostrata così incapace ed inadeguata rispetto a questi compiti?

Per prima cosa, la sinistra, negli ultimi 35 – 40 anni è stata totalmente inadeguata ad affrontare il neoliberismo. Essa credeva che il neoliberismo, fondandosi sulle leggi capitalistiche più spietate, non avrebbe retto. Ma i capitalisti non sono dei fanatici, sono dei pragmatici. In questi anni è stato contrapposto al neoliberismo qualcosa di veramente nebuloso e privo di possibilità di funzionamento. Al tempo stesso il neoliberismo è diventato più sofisticato ricercando il sostegno dello Stato, il suo intervento. È opportuno qui ricordare che per i neoliberisti non è la massa totale degli interventi dello Stato a preoccupare, bensì il carattere di queste attività. Essi sono interessati a quegli interventi che sostengono il mercato e ne ampliano le dimensioni. Si tratta, perciò, di occupare quegli spazi che permettono di ottenere dei profitti privati negli interstizi, e non solo, del settore pubblico, con l’aiuto dello Stato, mentre quest’ultimo si accolla i costi dell’operazione. La questione, infine, concerne l’utilizzo della capacità dissuasiva dello Stato nel punire le transazioni esterne al mercato e alle sue leggi. Questa questione detiene un ruolo centrale nel rapporto neoliberistico fra Stato e imprese.

Pensate, allora, alla questione così tanto propagandata a suo tempo del “capitalismo popolare”, che sulle prime non ottenne un grande successo tra le persone o tra la classe lavoratrice. Ma nel passaggio storico della sconfitta della forza operaia e delle sue organizzazioni di riferimento, parliamo di una sconfitta drastica ed ampia, ecco che quella classe e quelle organizzazioni di riferimento interiorizzarono questi cambiamenti. E riuscirono a renderli accettabili fra le persone radicali e all’interno della propria base sociale, riuscendo anche a comunicare in una maniera tale le priorità del neoliberismo che potesse avere delle sembianze di sinistra, sostenendo anche che il “capitalismo popolare” sarebbe stato un modo per ridistribuire il reddito.

Per la sinistra, quindi, oggi non si tratterà certamente di battere l’austerità o la crisi in quanto tali, ma si tratterà di affrontare una sfida di lunga durata. Sarà, quindi, necessario avere una visione a lungo termine, al pari di quella della classe dominante. Classe dominante che ha combattuto per decenni per arrivare dove è arrivata, e con una considerevole concentrazione di potere. Dobbiamo, quindi, essere coscienti di dover combattere una guerra di lunga durata.

Certamente dobbiamo opporci agli effetti peggiori degli attacchi nella pratica quotidiana, nel contingente e cioè batterci contro i tagli al settore pubblico, al welfare, contro le privatizzazioni. Ma dobbiamo anche dispiegare una resistenza contro l’autoritarismo e il dispiegamento di un’ideologia razzista che giustifica quell’autoritarismo. Nel lungo termine dobbiamo porre le basi per una ricostruzione della sinistra.

Una proposta possibile è quella che potremmo riassumere nelle “tre erre”: ripensare, riallineare, ricostruire.

È necessario ripensare la nostra teoria politica perché abbiamo un sacco di roba che arriva dalle nostre esperienze passate che non funziona più ed è superata. Dobbiamo riallinearci, ma non nel senso di dar vita a nuove forme partitiche, magari nuove sommatorie di sigle politiche. Dobbiamo, invece, trovare il modo per far lavorare insieme le persone, ad esempio anche nel settore dell’ecologismo marxista.

Dobbiamo ricostruire delle strutture politiche. Non ci sono più quelle strutture organizzative che molti anni fa permettevano uno scontro di classe di un certo tipo. Se, peraltro, si fosse veramente resistito a fondo al neoliberismo non saremmo arrivati all’imposizione dell’agenda della classe dominante, un’agenda in grado di ristrutturare totalmente la vita delle persone secondo i canoni del “ti vendo i diritti“. È ben diverso, infatti, sostenere il tuo bisogno di un’abitazione attraverso l’accensione di un mutuo, piuttosto che attraverso un’azione sindacale organizzata che ottenga un diritto per mezzo di uno sciopero o di una trattativa serrata. Vi sono ormai un sacco di aspetti della vita delle persone che sono stati resi mercato. Le persone si ritrovano a pagare per dei servizi che in realtà sono loro diritti.

Dobbiamo allora ricostruire quelle strutture mutualistiche e democratico-cooperative di base, che siano in grado di creare quella cultura della solidarietà che le persone devono riconoscere come un sistema di auto-difesa a loro proprio. Dobbiamo ricostruire un movimento sociale contro l’austerità.

A mio avviso ci sono tre modi per organizzarsi. Uno concerne la costruzione del movimento sociale e di strutture che lo tengano in piedi e lo facciano durare. Un’altra è quella dell’unità della sinistra che deve presupporre il cambio della dirigenza, la costituzione di un ampio fronte democratico-sociale, semplicemente perché nessuno di noi ha le risposte per tutte le domande. Un ampio fronte che deve essere il più pluralistico possibile.

Infine, bisogna che i marxisti guardino a sé stessi e a come si organizzano. Costoro non hanno più giustificazioni, devono trovare il modo di costruire delle organizzazioni anticapitaliste entro le quali il pensiero marxista possa essere vivificato e sviluppato.

I dogmi e i vicoli ciechi accumulati nel secolo scorso devono essere superati attraverso una linea di pensiero critico che possa reinventare il marxismo.

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