L’ideologia italiana.

Ideologia
Ideologia

Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Pistoia, 2008, 151 pagg.

Carlo LeviBartolini, e non sono l’unico ad essere d’accordo con lui, sosteneva che l’Italia fosse un paese di piccola borghesia che con la sua ideologia aveva contagiato anche ampi strati delle classi popolari. In un contesto del genere egli prevedeva che anche finito il Fascismo, queste classi che più o meno e a vario titolo avevano ormai penetrato tutti i partiti, avrebbero riprodotto quell’eterno Fascismo che egli riteneva essere la cifra, lo stigma dell’Italia. Levi, peraltro, dava molto peso all’ipotesi di una rivoluzione contadina che non ci fù, come primo episodio di un cambiamento italiano.

Leggere, di questi tempi (parliamo di quasi 70 anni dalla fine della 2^ guerra mondiale), un libro come quello di Bartolini, conferma la memoria storica di che cosa fu il Fascismo e, guardando all’oggi, rivalorizza il giudizio dello stesso Levi. Il libro di cui parlo è utile e singolare per una serie di ragioni.

Utile perchè in Italia si è parlato in maniera superficiale e frammentaria delle nostre responsabilità durante il secondo conflitto mondiale. Singolare perché a circa 70 anni di distanza, sull’argomento, siamo ancora qui a dover specificare, poiché, badate bene, dopo l’ignobile operazione di riabilitazione del Fascismo da parte di Fini-Violante, è proprio questo che ci ritroviamo a fare: ribadire e specificare.

La classe dominante italiana è sempre stata debole e frammentata. L’unico coagulante è stata la paura delle classi subalterne, perciò è dovuta ricorrere alla violenza risolutrice già prima del Fascismo. Evidente, tuttavia, è la continuità, sul piano ideologico, del concetto di nazione per noi italiani. La nazione si conquista e si depura; si espande espellendo gli elementi irriducibili; si crea come unità burocratico-militare prima ancora che economica e/o civile (dopotutto siamo, se grattiamo la scintillante superficie, ancora un paese arretrato, di un’arretratezza atavica che sembra superabile solo nel sistematico e feroce uso della violenza con cui si bruciano i tempi…il periodo coloniale insegna). Il trait-d’union, la trama comune riscontrabile in un linguaggio che non varia nel tempo. Dalla vittoria mutilata all’uso strumentale di questioni giudiziarie, come quella dei 2 marò, l’immagine che il paese ama avere di sé è quella del vittimismo giustificatorio di ogni reazione. Un paradigma sempre attuale ma oggi, tuttavia, declinato in maniera più sofisticata, con la violenza nel ruolo di opzione permanente e non obbligo contingente e dichiarato, come possibilità utile in ogni tempo e luogo del territorio nazionale, praticabile per mezzo del silenzio/assenso dell’Europa, Spada di Damocle che genera ordine e conformismo, nonché opportunità per l’economia disastrata di questo paese, quindi nuovo posizionamento (al ribasso) nella divisione internazionale del lavoro.

Il Fascismo come espressione naturale della classe dirigente italiana, quel vasto mondo piccolo-borghese di leviana memoria, cifra ideologica capace di connettersi col profondo sottosuolo degli interessi di classe non solo piccolo-borghesi, ma anche popolari. Si sa che le prebende e un lavoro sicuro corrompono chiunque o quasi. Il Fascismo nelle zone della Venezia Giulia è stato oppressore e corruttore, affabulatore ed assassino, articolando tutte queste qualità con l’invenzione di una superiore civiltà. La classe dirigente d’Italia ha trattato queste zone come fossero una colonia sin dal primo giorno. In questo senso queste zone hanno qualcosa in comune col Meridione italiano. E’ riuscita, inoltre, nell’impossibile compito di distruggere tutta l’eredità che  ebbe dall’Impero Austro-Ungarico.

Tuttavia, il motore non dichiarato dell’ideologia italiana, è l’interesse bottegaio e particolare, in nome del quale si annientano tutte le spinte all’unione, alla condivisione e alla solidarietà. E ritorniamo a Levi il quale sosteneva, inoltre, come il problema fosse direttamente collegato al fatto che tutti i politici antifascisti, chi più chi meno, erano – in virtù del loro essere fortemente pressati dalla loro ideologia piccolo borghese – degli adoratori dello Stato come di un qualcosa di esterno, lontano, trascendente alle persone e alla vista del popolo: l’esatto contrario di ciò che avrebbe dovuto, semmai, essere. Parliamo di uno stato tirannico, paternalistico e provvidenziale, fascista o democratico ma sempre unitario, centralizzato e lontano. Ed in effetti, l’unità del paese fu compiuta burocraticamente e militarmente mentre ancor oggi vediamo nel militarismo, nel classismo, nel sessismo e nel revisionismo di cui sopra, la realizzazione dell’esperienza politica italiana, immutabile dopo brevi parentesi opportunamente lasciate sfogare ed esaurirsi.

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