Il salario minimo.

Il salario minimo
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di Sergio Mauri

Da tempo si discute l’introduzione del salario minimo, muovendo dalla constatazione – vera – che il nostro Paese, rispetto agli altri Paesi europei, ha avuto, negli ultimi decenni, il minor incremento salariale. Infatti, non è una maldicenza affermare che il nostro non è un capitalismo particolarmente avanzato, in grado di competere con i colossi mondiali dell’economia e che perciò i lavoratori che esso impiega non siano decentemente pagati. È un dato di fatto.

Il salario rappresenta il valore di mercato della forza lavoro in quel settore, per quella mansione, in quello spazio e tempo determinati. Il valore di mercato, quindi soggetto alla legge della domanda e offerta, al tempo di produzione/riproduzione della forza lavoro come merce particolare fra le merci è un parametro, certo importantissimo, ma un parametro che entra nei fattori di produzione. Per l’impresa il salario è un costo, come le tasse, le utenze, la burocrazia, che erode i profitti che si fanno quando i consumi, gli investimenti o la spesa pubblica tirano. Qualcuna di questi tre ‘driver’ poc’anzi menzionati sta tirando in Italia? Non mi risulta. Le agenzie di marketing che si propongono come “sinistra” (le opposizioni) sono per l’istituzione del salario minimo, quelle che si presentano come “destra” (la maggioranza) non ne vogliono sentir parlare. Gli uni dicono di voler dare dignità al lavoro, gli altri non hanno nemmeno il coraggio di dirsi difensori degli imprenditori e dicono che il lavoro stesso ne sarebbe danneggiato. Colpisce il basso profilo tenuto dal sindacato. Il salario è questione innanzitutto sindacale: perché mandare avanti la politica? Per debolezza? Perché si ha la coda di paglia?

Si tratta dell’ennesimo dibattito basato sul nulla (totalmente per i lavoratori, parzialmente[1] per le imprese)!

La questione è ben diversa e già molte volte espressa dai nostri economisti (Gallino, Sapelli, Forchielli, Alvi, Boeri, Cottarelli eccetera)[2]: è la nostra struttura economica, per come si è sviluppata, che non permette la nascita di imprese (pubbliche o private) che sono lo strumento per produrre ricchezza e poi distribuirla. Se qualcuno dei ‘driver’ di cui sopra tirasse, avremmo uno sviluppo industriale e commerciale che permetterebbe una contrattazione sindacale seria e anche un riassorbimento della disoccupazione che alla depressione salariale è collegata. Qui non si tratta di giustizia o del fatto che gli imprenditori devono sganciare di più (e i lavoratori lavorare meglio, con più perizia e attenzione, la contropartita è questa care anime belle); si tratta del fatto che il mercato del lavoro italiano è povero perché è povera la struttura industriale del paese (siamo fuori dai settori innovativi che tirano oggi, il parco-imprese è vecchio), quindi discutere di salario minimo in un paese dove le leggi, peraltro, rimangono sulla carta, è solo propaganda politica o elettorale. Certo, l’Italia è ancora nel G7, soprattutto grazie alle continue genuflessioni ai padroni nordamericani della NATO, ma solo per fare un esempio, nel 2022 la Banca Mondiale ci dà al 10° posto nella classifica mondiale del PIL, superati dalla famigerata Federazione Russa e tallonati dal Brasile. Ciò che non riesce all’economia vera e propria, riesce con i miracoli genuflettori della politica nostrana che sono capaci di tenerci nel “salotto buono” dell’Occidente.

Altro discorso sarebbe quello del ruolo sindacale, della sua accettazione della subordinazione agli interessi imprenditoriali, questione nata e affermatasi tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, in seguito alle sconfitte e all’indebolimento delle lotte dei lavoratori nel contesto della ristrutturazione e della nuova divisione internazionale del lavoro (oltre che dalla caduta del Muro di Berlino). La questione sindacale non è solo questo: non si può dimenticare che il sindacato è ormai totalmente interno e asservito (almeno nelle sue componenti confederali e di quelle non-confederali firmatarie del Testo Unico sulla rappresentanza sindacale) all’andamento dell’economia nazionale, nel bene e nel male.

Il problema, quindi, è innanzitutto interno alla classe dirigente (a questo punto) europea e non semplicemente italiana, alla sua capacità di immaginare un possibile sviluppo o recupero in termini economici, attraverso investimenti, creazione di un mercato interno[3] al fine di svilupparli, attraverso una politica unitaria delle esportazioni e delle importazioni, che possa rilanciare il tessuto produttivo italiano all’interno di quello europeo, rilanciando quindi la classe lavoratrice stessa. Non penso ci siano altre strade percorribili ed è ancora presto per capire che fine faranno i soldi del PNRR[4].

Con buona pace delle agenzie di marketing.

Postilla: cos’è il PNRR?

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è un programma di investimenti pubblici e riforme che l’Italia ha messo a punto per rilanciare la propria economia dopo la crisi economica causata dalla pandemia di COVID-19. Il PNRR è stato approvato dalla Commissione Europea il 22 aprile 2021 e prevede investimenti per un totale di 235,12 miliardi di euro, di cui 191,5 miliardi di euro in sovvenzioni e 43,62 miliardi di euro in prestiti.

Il PNRR si articola in sei missioni:

  1. Rivoluzione verde e transizione ecologica. Questa missione prevede investimenti per la decarbonizzazione dell’economia italiana, la promozione delle fonti rinnovabili di energia, l’efficientamento energetico e la tutela dell’ambiente.
  2. Innovazione, digitalizzazione e competitività. Questa missione prevede investimenti per la ricerca e sviluppo, l’innovazione digitale, l’attrattività del sistema produttivo italiano e la competitività delle imprese.
  3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile. Questa missione prevede investimenti per la costruzione di infrastrutture per la mobilità sostenibile, come ferrovie, metropolitane, autobus elettrici e piste ciclabili.
  4. Istruzione, ricerca e formazione. Questa missione prevede investimenti per migliorare la qualità dell’istruzione, della ricerca e della formazione, al fine di creare una società più inclusiva e competitiva.
  5. Salute. Questa missione prevede investimenti per migliorare il sistema sanitario italiano, al fine di garantire a tutti i cittadini un’assistenza sanitaria di qualità.
  6. Coesione sociale e territoriale. Questa missione prevede investimenti per ridurre le disuguaglianze sociali e territoriali, al fine di creare un Paese più unito e sostenibile.

Su questo tema potresti anche leggere: IL SINDACALISMO DI BASE | COMPETERE SENZA INDUSTRIA | IL PAESE MANCATO. DAL MIRACOLO ECONOMICO AGLI ANNI OTTANTA. UN LIBRO DI GUIDO CRAINZ.


[1] Il parzialmente si riferisce alla possibilità di “salvare il salvabile” di un tessuto produttivo, specialmente la parte buona dello stesso.

[2] Che non cito per simpatia o perché ne sostenga in toto le ricette economiche, ma perché hanno dato delle indicazioni documentate sulla situazione.

[3] Con una legislazione che renda obbligatorio adottare i pannelli solari piuttosto che le batterie per le rinnovabili o che crei settori strategici di innovazione di grandi dimensioni.

[4] Un piano troppo vago per avere una chiara direzione di investimento a medio-lungo termine.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022 e Silele Edizioni (La Tela Nera) nel 2023.
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