Svevilità.

Svevo
Svevo

Per prima cosa devo dire che Svevo non è il mio autore o uno dei miei autori preferiti. E’ un autore che reputo di un certo interesse, ma nulla più. Le sue costruzioni sintattiche e le sue trame sono il frutto di un altro tempo e di altre priorità, di un’altra cultura e di orizzonti che apparivano ancora tali, non intasati da visioni sconcertanti (anche se le turbolenze iniziavano a scorgersi). Dopotutto egli fu un uomo che visse la sua maturità in piena Belle Epoque. Posso immaginare il suo tempo, storico e cronologico, quando entro in un palazzo del centro di Trieste e prendo uno di quegli ascensori d’epoca con la seduta: le persone avevano il  tempo di sedervicisi! Tuttavia, egli sentiva, con l’orecchio appoggiato alla rotaia, che il cambiamento stava arrivando e che sarebbe stato destabilizzante. Chiese aiuto alla psicoanalisi che più che aiutarlo lo segnò dandogli però in cambio un supplemento di coscienza. Sgombrato, quindi, il campo da qualsiasi ombra di partigianeria, possiamo continuare.

E’ difficile parlare in poche righe di un personaggio come Italo Svevo (alias Hector Schmitz) e questo post non sarà certamente una recensione sulla sua opera, cosa fatta da ben altri studiosi. Ciò che intendo analizzare, invece, ha a che fare con il suo essere diventato, volente o nolente, un personaggio storico e pubblico. Si narra della sua infaticata tensione ad affermarsi come scrittore riconosciuto. Bene; ce l’ha fatta, da decenni, con il diffuso sistema della gloria postuma. Il punto è che si ragiona spesso, quando si vuole giudicare non solo il lavoro, ma anche il peso umano di una persona, inquadrando solo l’immagine ripresa da una certa angolatura. Quella che fa più comodo o, per non essere così cinico, quella che si pensa sia la più importante in quel determinato momento. In svariate occasioni, sulla stampa triestina, lo si è sterilizzato, parlando di tutto, ma non di chi fosse; poi lo si è accusato di opportunismo, che a Trieste significava essere iscritti al partito italiano, avendo nascosto o glissato sul suo essere un ebreo di lingua tedesca. A dirlo e a sottolinearlo di nuovo è stato Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, in un articolo comparso sul Piccolo. Per inciso, vorrei ricordare che uno degli sport più affermati a livello locale, in grado di superare l’amatissimo trekking, le scalate, il tennis e i cavalli Lipizzani, è quello di seppellire dietro un muro di silenzio i nomi importanti della cultura. [1] Svevo, per un lungo periodo è rimasto seppellito dietro quel muro, poi, riesumato, si è guadagnato la sua lunga serie di bastonate.

E’ uscito ultimamente un libro, che ho già citato in questo articolo sulla memoria, dove possiamo leggere degli sconsolanti atteggiamenti derisori degli intellettuali del tempo nei confronti di Svevo. Una conferma per me inutile ma utilissima, invece, per chi non avesse mai calcato il suolo triestino. A dire il vero Svevo agì in un certo modo per convenienza. Come la maggior parte degli ebrei prima e durante il fascismo, proprio in quanto ebrei, necessitavano di legittimazione da parte della classe dominante. Anche da parte slovena e croata, peraltro, ci furono degli esempi in questo senso, da Cobolli Gigli a Coceani e a tutti coloro che magari con l’alibi dell’anticomunismo e/o di un posto di lavoro svendettero la propria identità. Ma nonostante il suo temperamento incline al compromesso, Svevo è inviso, molto, anche alla destra, che di quella classe dominante trasformista è sempre stata l’espressione. Per essa egli rimane un ebreo, testimone della Trieste cosmopolita, prova vivente di ben altre grandezze. Svevo ha avuto il destino di essere sempre stato sottostimato e dileggiato un pò da tutti. Poi, la casta culturale lo ha riscoperto. Sicuramente egli non fu un leone; ma che vuol dire? Boris Pahor, per supplemento, lo ha accusato di ambiguità. Se è stato ambiguo non lo ha fatto certamente per emergere come scrittore, visto che in vita, sotto questo aspetto ha avuto ben poco successo. E’, invece, logico che potesse essere ambiguo a causa del suo ruolo sociale.

Per capire meglio la figura umana di Svevo, bisogna ricordare che egli era un rappresentante della borghesia imprenditoriale triestina, genero di Veneziani, quello della fabbrica di pittura, per il quale lavorava. Si era irregimentato (e lo avevano irregimentato) in un partito politico (senza particolari entusiasmi), aveva un ruolo sociale che all’epoca era rigido, non poteva permettersi ammutinamenti se non con la scrittura. Angelo Vivante altro rappresentante della borghesia triestina, al contrario, si ammutinò, divenne socialista, esponente di quella particolare forma di socialismo locale chiamata austro-marxismo, venne emarginato dalla classe imprenditoriale triestina e fini suicida poco dopo l’inizio del primo conflitto mondiale che visse come un fallimento personale. Vivante viene ricordato pochissimo, e naturalmente non in concomitanza con gli attacchi a Svevo: un caso strano, direi. Svevo non fece le stesse scelte di Vivante, ma nemmeno tante altre persone fecero quelle scelte. Molti altri si: erano persone molto più semplici e non vennero mai ricordate per le proprie azioni. Bene: invece di attaccarlo (a posteriori) sarebbe più intelligente far emergere tutti questi fatti e parlare di lui per ciò che è stato: un borghese ebreo, tedesco e italianizzato, con una buona cultura e operante in un contesto che ora non c’è più, ma che meriterebbe di essere messo in luce, soprattutto come confronto con l’oggi. Tuttavia, nessuno ha il coraggio di farlo. Possiamo intuirne la ragione? Perché quel contesto era l’esatto contrario di ciò che dice Pahor e (specularmente) la destra nazionalista italiana: l’impero asburgico era la coesistenza difficile, ma possibile, e nell’imperfetto rispetto reciproco, di molte nazionalità che lavorarono insieme e si fusero, sposandosi e così via. Insomma, un rapporto di incontro/scontro come tutti i rapporti umani durato, però, un pò di secoli. Un modello di convivenza reso impopolare dal risveglio delle nazionalità della seconda metà dell’800 e che è giunto, con la sua ingiustificata impopolarità, fino ai giorni nostri per sistematica decisione delle nostre classi dirigenti. Col senno di poi, certo, non si fa la storia, ma una riflessione seria su ciò che si distrusse allora credo non si sia ancora fatta.

[1] Carolus Cergoly, Vladimir Bartol, Giorgio Voghera, Roberto Bazlen, Srecko Kosovel ma anche Fulvio Tomizza e Ivo Andric, Stelio Mattioni, Alojz Rebula….

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