Anti Žižek. Parte 2.

Anti Žižek
Slavoj Zizek, zizek, Žižek, slavoj Žižek, zizek ukraine, filosofo zizek,

La cassetta degli attrezzi di Žižek .

Sarà un breve excursus sulle argomentazioni, rigorosamente non marxiste, usate da Žižek contro la sinistra con la puzza sotto il naso. Poi, una breve critica alla narrazione Žižekiana intorno alla globalizzazione, alla sinistra di cui sopra e alle interconnessioni tra il processo di globalizzazione e quest’ultima.

Žižek usa un certo tipo di semantica frasale dove inserisce, molto spesso in senso polemico, questi termini: il liberal tollerante, la cioccolata lassativa, l’Alterità decaffeinata. Per indicare e combattere le controversie politiche nei confronti dei suoi nemici, ovviamente: la sinistra con la puzza sotto il naso. La stessa sinistra nemica di Sallusti, Santanchè e magari Grillo. Ho già spiegato, nel paragrafo precedente, cosa presuppone questa atteggiamento in Žižek, quali siano le sue coordinate culturali e i nessi critici profondi. Alla fine di tutto è l’uomo Žižek a parlare, in maniera implicita, come già osservato: Žižek, l’agitatore radicale e bastian contrario, è – nel cuore – un borghese conformista e liberal-nazionalista.

Ma passiamo ora ad un articolo di giornale ben preciso apparso circa cinque anni fa. Si tratta di un articolo a firma Žižek sul Guardian, dall’eloquente titolo: Il multiculturalismo liberal maschera una vecchia barbarie con una faccia umana.

La base della polemica contenuta in questo articolo, un po’ una summa del Žižek-pensiero sull’argomento, ripetuto nella sua pubblicistica, è che, mentre una volta la politica europea era polarizzata tra centro-destra e centro-sinistra è ora sempre più polarizzata tra un grande centro a favore della globalizzazione e una piccola, ma sempre meno tale, parte di destra xenofoba ed anti-globalizzazione. Il grande centro a favore della globalizzazione è composto dagli ipocriti e tolleranti liberal che, in un certo modo, rispettano l’Altro da sé, ma rispettano solamente una Alterità non-invasiva che non si inserisca nel loro spazio privato, quest’ultimo essendo lo spazio politico europeo. Così, mentre i “centristi” filo-globalizzatori attaccano la destra populista celebrano la diversità e l’Alterità nello stesso modo in cui l’antisemita “moderato” Robert Brasillach celebrava le conquiste di Charlie Chaplin, Proust o Yehudi Menuhin, insistendo cioè sul fatto che l’antisemitismo istintivo poteva essere regolamentato solamente attraverso la pratica di un antisemitismo moderato. La destra populista, allora, può essere smontata attraverso la pratica di un razzismo anti-immigrazione moderato. L’esempio di Brasillach fa pensare. I politici borghesi montano il razzismo per poi affidarsi all’idea che ci sia qualcosa di istintivo e di senso comune intorno al fenomeno, e che ciò può solo venir controllato attraverso un razzismo moderato, prudente, e dai tratti “sensibili”.

Lo schema Žižekiano però fallisce completamente come possibile lettura della realtà politica sulla razza e la globalizzazione in Europa. In prima istanza, quando il centro filo-globalizzazione attacca la destra xenofoba, non lo fa generalmente in nome del multiculturalismo liberal. L’attacco è, piuttosto, basato in forza di un nazionalismo alternativo che si nutre di coesione, integrazione, ed accettazione di “preoccupazioni legittime” e sulla dolorosa conclusione che il multiculturalismo (cioè la società multirazziale) non funziona e che l’immigrazione debba essere seriamente limitata e al tempo stesso le minoranze disciplinate e costrette ad interiorizzare una serie di valori di base europei e/o occidentali. Ciò è culturalmente prevaricatore, gerarchico ed autoritario, non tollerante, libertario o egualitario. Il multiculturalismo ufficiale ha i suoi limiti, ma non è da biasimare per l’indirizzo di destra ed anti-immigrazione preso dalla politica mainstream. In verità, il liberal tollerante, il pupazzo-di-stoffa-che-si-oppone a Žižek è completamente innocente riguardo a quelle prepotenze. Questo liberal tollerante non è del tutto cattivo ed è anche capace di sostenere i tentativi di cambiamento sul tema della supremazia bianca.

In secondo luogo fallisce perché le forze europee ed americane più protervamente pro-globalizzazione sono anche quelle più xenofobe, anti-immigrati e di destra estrema. Molte di queste forze – la destra conservatrice in Gran Bretagna, lo UKIP, il Partito della Giustizia e Libertà (Justice and Freedom) sempre inglese, possono anche essere euro-scettiche, ma aggressivamente a favore della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti. Proprio negli Stati Uniti, molti di questi estremisti di destra sono favorevoli al “ibero mercato” e tra i più ostinati razzisti anti-immigrati. Ci sono, certamente, anche dei nativisti e dei fascisti che sono di destra, xenofobi ed anti-globalizzazione, ma sono ancora correnti di minoranza e non generalmente come chi guida Il Partito della Giustizia e Libertà inglese o il Dutch Freedom Party. I raggruppamenti del Tea Party, ad esempio, hanno al loro interno dei nativisti, tuttavia i loro testi sono austriaci, ed il loro contratto politico contiene molti argomenti intorno alla libertà economica e nulla contro la globalizzazione o il libero scambio. La opposizione presente nello schema Žižekiano, quindi, è totalmente illusoria. Questo poiché la globalizzazione è un processo imperialista che è del tutto compatibile con le restrizioni all’immigrazione. Esso non implica il libero movimento per la forza lavoro, fatta eccezione per i termini favorevoli al capitale euro-americano, dal momento che il suo proposito è quello di facilitare lo sfruttamento del lavoro e l’estrazione di un surplus ad esclusivo beneficio dei detentori dei pacchetti azionari del nucleo economico capitalistico.

Sulla Polonia, per ultimo, ciò che Žižek definisce come il “miglior esempio” per il suo schema, non è una tendenza tipica dell’Europa. L’eredità dello stalinismo e le purghe anticomuniste ha significato che la politica vi è stata instradata in una divisione tra liberal-conservatorismo e nazionalismo di destra. Ma vi è, tra le altre cose, l’emergere di una nuova sinistra che riflette la disaffezione per la globalizzazione. Il grosso del continente è ancora suddiviso tra destra e sinistra, debolmente riflesso a livello parlamentare nelle appartenenze di centrodestra e centrosinistra. Nonostante gli sforzi del capitale verso la cooptazione dei processi elettorali e nonostante l’illusoria trascendenza di destra e sinistra portata avanti da politicanti della Terza Via, il mondo del lavoro può abilmente mantenere una democrazia sociale di base. In verità, la crisi stà accentuando la polarizzazione tra destra e sinistra e porta la lotta fino ad un punto in cui la vittoria determinerà chi sarà a portare il costi della crisi: i lavoratori o i banchieri ed i ricchi. È inutile osservare che, se vincesse la destra, i primi a soffrirne sarebbero proprio gli immigrati e le minoranze ed la fragile istituzione del multiculturalismo sarebbe fatta a pezzi.

Žižek, Foucault e Heidegger. E Critchley.

Come già osservato da Steven Sherman sulla Monthly Review, recensendo il libro In difesa delle cause perse, è praticamente impossibile essere sempre d’accordo con Žižek, dal momento che contraddice se stesso da un capitolo all’altro. Inoltre, osserva Sherman, Žižek ha la consuetudine di girare a vuoto nei momenti chiave. Proprio nel libro in questione, c’è un capitolo in cui Žižek critica l’impegno in politica di Heidegger e Foucault. Il primo si unì al Partito nazista, il secondo abbracciò la Rivoluzione iraniana. Sono due esempi che spesso, e non solo dal filosofo sloveno, sono stati usati come avvertimento circa i pericoli del coinvolgimento degli intellettuali nella politica. È come se un intellettuale dovesse per forza seguire un cammino limitandosi alla contemplazione o rifugiandosi in cause sicure come i diritti umani. Žižek, tuttavia, difende le loro scelte di coinvolgimento volontario in politica, riducendole però ad una sorta di fallimento di percorso. Egli, infatti, sostiene queste non fossero fatte per e con sufficiente radicalismo, ma, al contrario, non furono sufficientemente radicali. E fa due esempi. 1) Sebbene i nazisti impiegassero una certa retorica anti-modernista, non erano assolutamente interessati ad una trasformazione così drammatica della società tedesca che implicasse quel fenomeno cui Heidegger aveva prestato interesse e si chiamava “attenzione a” 2) Foucault nel fuoco degli eventi rivoluzionari iraniani, durante i quali emergevano tutti gli sforzi utopici indirizzati a rifare le relazioni sociali, vedeva il consolidamento del regime teocratico subito dopo quegli eventi.

La posizione audace di Žižek si sgonfia per il fatto che non dà alcuna spiegazione di come avrebbero dovuto essere, nelle due circostanze date, questi sforzi sufficientemente radicali. Egli lascia allora il lettore da solo ad immaginare quale potesse essere questo tipo di politica radicale da applicare a questi, come ad altri casi. L’autore si lascia pure andare ad uno scherzo, che invece è un autogol, affermando che “la sinistra è come quel paziente che vede un dottore che gli dice che ciò di cui ha veramente bisogno è di farsi vedere da un buon dottore“. Sappiamo, quindi, che la nostra politica non è sufficientemente radicale. E allora, che cosa dovremmo fare? Questa critica alla insufficiente radicalità era particolarmente efficace se mirata, ad esempio, alle forze politiche ed accademiche americane che si rifacevano alle linee del “politicamente corretto”. Linee che furono anche un modo per coprire, attraverso la ferocia polemica del discorso, la modestia del cambiamento e la debolezza degli strumenti impiegati per attuarlo. Tanto è vero che la vera discussione, cioè sulla natura dello Stato o sulla divisione in classi della società, fu subito posposta o elusa.

Žižek critica, inoltre, Simon Critchley – filosofo inglese contemporaneo – che si fa portavoce della politica delle “continue richieste” nei confronti di uno Stato che è incapace o impossibilitato a soddisfarle.

Žižek, al contraio, intende focalizzarsi su richieste che lo Stato può soddisfare. Un modo per ripatinare il governo? Tuttavia egli non ci spiega quali siano queste richieste.

Peraltro, già in un saggio sul populismo Žižek critica i tecnocrati francesi imparuriti dal possibile ritorno del conflitto politico, ma da parte sua, non è più chiaro della sinistra francese (o europea) nell’evidenziare i contenuti di cui essa dovrebbe dotarsi.

Nel saggio finale del libro, Žižek offre la sua ricetta per il cambiamento. Qui in effetti, Žižek evidenza ed intuisce diversi elementi interessanti, nella lotta politica del 21° secolo, nell’alleanza frai sottoproletari abitanti delle bidonville e il nuovo proletariato cognitario.

Tuttavia, per uno che si professa marxista come Žižek, non prendere assolutamente in considerazione due elementi fondamentali quali la classe operaia internazionale e la crisi capitalistica è piuttosto singolare.

Di certo, come sostiene Sherman, Žižek non si legge per avere una visione coerente delle cose che accadono nel mondo e tanto meno per impostare una qualsivoglia strategia politica ed organizzativa finalizzate a cambiarlo. Egli invece dà, in un certo senso, il massimo, quando si tratta di provocare il lettore smontando alcuni clichés di cui si nutre la cultura in generale e quella di sinistra in particolare.

Caratteristica tuttavia insufficiente a fare politica in modo serio. E soprattutto costruttivo.

Žižek e Lacan.

Lacan non è Freud. Il primo, a differenza del secondo, dà più peso alla politica e alle strutture sociali. Inoltre: che cos’è la psicanalisi? È la trasposizione, o meglio il riflesso narrativo e dialettico delle relazioni sociali, della vita concreta. La psicanalisi, quindi, attua questo salto di qualità occupandosi di un particolare ambito della vita umana; quello interno all’uomo, ciò che gli arriva fino in fondo all’anima, alla sua essenza, e ne influenza l’esistenza. È quella disciplina che studia le reazioni umane alla vita quotidiana, alle relazioni che vi si instaurano, spesso non per scelta. Da questo punto di vista la psicanalisi non inventa nulla: disloca diversamente l’oggetto delle analisi. È il marxismo, infatti, ad esserne il padre ispiratore, l’esempio più vicino, la disciplina più prossima. Lacan vi ha un contatto più diretto, un’osmosi esplicita.

Lacan usa il linguaggio, è nel linguaggio che ritrova il centro di ogni questione, problema e relativa soluzione. Lacan sostiene che è il linguaggio ad essere il trauma, e non il sesso come sostenuto da Freud. Tuttavia, proprio su questo, due parole andrebbero dette. L’uomo è caratterizzato distintivamente dal linguaggio, nel senso specifico del linguaggio verbale, rispetto agli animali che ne sono privi. La nostra cultura, in continuità con questa nostra essenza strutturale, nella sua evoluzione conosce il Verbo fattosi carne. Quindi, adeguamento della vita al linguaggio e non l’inverso, nella quale intravedo una rigidità coercitiva. Il libro come direzione, verifica, adeguamento coerente. Ma, allora, seguendo Žižek, come in Lacan, la lettura dominante, si confessa una sorta di conformismo alle direttive socio-culturali che dovrebbe criticare. Con questo non voglio mettermi al livello di Chomsky che definisce le argomentazioni di Žižek e di Lacan “vuote posture“. È interessante notare perché Chomsky bocci Žižek: una teoria è fatta di “principi dai quali si possono dedurre delle conclusioni, proposizioni empiricamente testabili….“. Elementi che mancano nel discorso Žižekiano.

E non voglio nemmeno scomodare uno studioso come Geoff Waite e la sua definizione di “fascioide” (un qualcosa che non è propriamente fascista, ma vi ha un legame di parentela), applicata a Nietsche e alla sua ricezione soprattutto a sinistra. La definizione di “fascioide” si attaglia molto bene anche ad alcuni intellettuali di sinistra e non solo a quelli reazionari. Essa si compone, essenzialmente, di quattro direttrici che vale la pena conoscere.

  1. Di un’ontologia politica combattiva, basata su una permanente guerra – oscillante fra due poli opposti (guerra aperta o coperta) contro i valori democratici.

  2. Di un indiscusso impegno verso alcune forme inerenti il “Principio del Leader”, necessariamente di sesso maschile ed appartenente alle élites neo-atistocratiche come vero motore della storia, funzionante sotto la maschera dei diritti individuali, ma anche dell’anarchismo, del libertarianismo, del populismo, varianti democratico-sociali incluse. Da applicare con “ogni mezzo necessario”.

  3. Di un impegno socio-economico entusiasta non necessariamente capitalista, ma anche capitalista se necessario, mirato al mantenimento di una forza-lavoro credulona, flessibile e disponibile, fino ad includere il lavoro coatto.

  4. Di un tipo oratorio e di scrittura coscientemente manipolatorie ed ipocrite, agenti nel campo esoterico, esplicitando strategie comunicative volte a parlare, al tempo stesso, a due pubblici: quello che sa e quello che non sa chi viene tenuto fuori dal discorso.

Tuttavia, a prescindere dalle opinioni degli addetti ai lavori e mie, qualche correzione di rotta analitica e ricalibratura dello sguardo critico ci dovrà pur essere in Žižek, se non vorrà farsi sommergere dalle troppe critiche.

** Se puoi sostenere il mio lavoro, comprami un libro **

Be the first to comment on "Anti Žižek. Parte 2."

Leave a comment