Dell’essenza della verità-Heidegger.

L'essenza della verità
L'essenza della verità. martin heidegger, quidditas, essenza, koinon, veritas est adaequatio rei et intellectus, convenientia, adeguamento,

di Sergio Mauri

[Si tratta di una valorizzazione, nella sua specificità, della filosofia]

Essenza=quidditas, koinon, il che cos’è, ciò che rende possibile, condizione della possibilità, fondamento del render possibile. La questione dell’essenza riguarda una sola cosa: “che cosa in generale caratterizza ogni ‘verità’ in quanto verità”. Prescinde da tutto il resto.

La filosofia non può confutare il senso comune, perché quest’ultimo è sordo al suo linguaggio e la filosofia stessa non vuole confutare quel senso comune “cieco a tutto ciò che la filosofia propone come essenziale”.

Cos’è dunque la verità? La verità designa ciò che fa sì che un vero sia vero. Cos’è il vero? Il vero è il reale. Una cosa falsa è irreale, è apparenza. Più chiaramente, una cosa reale è autentica. Tuttavia, una cosa autentica e una inautentica sono entrambi reali.

Un qualcosa di autentico è quel qualcosa di reale la cui realtà è in concordanza con ciò che noi in precedenza e da sempre intendiamo “propriamente” per quella cosa.

Di un qualcosa di falso diciamo che quel qualcosa non quadra. Di qualcosa che è così come conviene che sia diciamo che quadra.

Noi non chiamiamo vera solo una cosa reale, ma chiamiamo vere o false anche e prima di tutto le nostre asserzioni sull’ente che può essere esso stesso autentico nel suo genere e che nella sua realtà può essere così o altrimenti.

Un’asserzione è vera, quando ciò che intende e dice concorda sulla cosa sulla quale asserisce. Essa quadra, ma non è la cosa che quadra, è la proposizione.

Il vero, sia esso una cosa vera o una proposizione vera, è ciò che quadra, ciò che si accorda.

Esser-vero e verità qui significano accordo, in un doppio senso: l’accordo di una cosa con ciò che si intende già per essa e la concordanza tra ciò che è inteso nell’asserzione e la cosa.

Essenza della verità (tradizionalmente intesa) è veritas est adaequatio rei et intellectus. Sia nel senso dell’adeguazione della cosa alla conoscenza, sia nel senso dell’adeguazione della conoscenza alla cosa.

Entrambi i concetti dell’essenza della veritas sottintendono sempre un conformarsi-a e, quindi, pensano la verità come conformità. Tuttavia, intellectus e res, non sono l’una la pura e semplice inversione dell’altra. “[…] Intellectus e res sono pensati diversamente in ognuno dei due casi […]”.

L’origine più prossima della verità è la veritas medievale che si riferisce alla fede teologica cristiana che le cose siano solo in quanto essendo create corrispondono all’idea anticipatamente pensata nella mente di Dio. Essendo conformi alle idee sono, in questo senso, vere.

L’intelletto è conforme all’idea solo in quanto realizza nelle sue proposizioni l’adeguazione del pensiero alla cosa che a sua volta deve essere conforme all’idea.

Se tutti gli enti sono enti “creaturali”, la possibilità della verità della conoscenza umana ha il suo fondamento nel fatto che la cosa e la proposizione sono in ugual maniera conformi all’idea. In virtù dell’unità del piano divino della creazione, sono predisposte l’una per l’altra.

“Veritas significa nella sua essenza e in generale la convenientia, il concordare […] degli enti tra loro in quanto entri creati con il Creatore, una sorta di ‘accordo’ […] determinato dall’ordine della creazione”. Quest’ordine, una volta svincolato dall’idea della creazione può essere presentato come ordine universale. Al posto dell’ordine teologico abbiamo la pianificazione di tutti gli oggetti per mezzo della ragione universale.

Noi diamo per certo che l’essenza della verità della proposizione risieda nella conformità dell’asserzione. Ciò vuol dire che la verità della cosa consiste sempre nell’accordo della cosa data col concetto “razionale” della sua essenza.

Sembra così che questa determinazione della essenza della verità sia indipendente dall’interpretazione dell’essenza dell’essere di ogni ente che, a sua volta, include una corrispondente interpretazione dell’essenza dell’uomo come portatore e realizzatore dell’intellectus.

In tale modo la formula dell’essenza della verità acquista immediatamente per chiunque una validità generale.

Contestualmente a questo concetto di verità si accetta il suo contrario, la non-verità.

Perciò, “la non-verità della proposizione (come non conformità) è il non-concordare dell’asserzione con la cosa. La non-verità della cosa (come non autenticità) è il non accordarsi dell’ente con la sua essenza. In entrambi i casi la non-verità può essere concepita come un discordare”. Il discordare “cade fuori dall’essenza della verità”.

Liberando la definizione filosofica di verità dalla teologia, ci imbattiamo in un’antica “tradizione di pensiero, secondo la quale la verità è la concordanza (omoiosis) di un’asserzione (logos) con una cosa (pragma)”.

La concordanza ha diverse accezioni. Concordanza tra cosa e cosa, tra un’asserzione e la cosa. In cosa concordano due termini della relazione di aspetto diverso? “E questo accordo, secondo il concetto corrente di verità, dovrebbe essere un’adeguazione”. Ma com’è possibile? Qui adeguazione non significa identificazione reale tra le cose di diverso genere.

“L’essenza dell’adeguazione si determina piuttosto a partire dal tipo di relazione che intercorre tra l’asserzione e la cosa”. Fino a che la relazione resta “indeterminata e infondata nella sua essenza, ogni disputa sulla possibilità e sull’impossibilità, sul genere e sul grado dell’adeguazione va a vuoto”.

“L’asserzione sulla moneta ‘si’ riferisce” alla sua rappresentazione. L’asserzione rappresentativa dice come è la cosa rappresentata. “Rap-presentare […] qui significa […] il far stare di fronte a noi la cosa come oggetto”.

L’apparire “della cosa nell’attraversare il ‘di fronte’, si attua entro un aperto, la cui apertura non è creata dal rappresentare”, ma da esso è “via via occupata e assunta solo come campo di riferimento […]”. La relazione […] dell’asserire rappresentativo con la cosa è l’attuazione di quel rapporto […]” che si mette in moto “come un comportarsi”. Ogni “comportarsi” stando nell’aperto si attiene “a un che di manifesto in quanto tale”. Ciò che è manifesto in senso stretto viene esperito nel pensiero occidentale come “ciò che è presente” ed è chiamato “l’ente”. Ogni comportarsi è aperto in modo costante rispetto all’ente. “Ogni riferimento costantemente aperto è un comportarsi”.

“Ogni opera e ogni realizzazione, ogni azione e ogni calcolo, sta e si mantiene nell’apertura di un ambito al cui interno l’ente può porsi ed essere detto proprio per ciò che è per come è”.

“[…] L’asserire si conforma all’ente […]; dire che vi corrisponde è conforme”, cioè vero. Quindi, ciò che così è detto è il vero, il conforme. “L’asserzione deve mutuare la sua conformità dall’apertura costante del comportarsi”, poiché “solo attraverso questa apertura, ciò che è manifesto può in generale diventare misura di conformità per l’adeguazione che rappresenta”. Se “la conformità (la verità) dell’asserzione è possibile solo attraverso la costante apertura del comportarsi, allora ciò che rende possibile la conformità deve valere, con un diritto più originario, come l’essenza della verità”. Così “cade la tradizionale attribuzione esclusiva della verità all’asserzione come suo unico luogo essenziale. La verità non ha la sua dimora originaria nella proposizione”. Al tempo stesso si solleva la questione “del fondamento della possibilità intrinseca del comportarsi” che è “costantemente aperto e che prospetta una misura di conformità. […] È solo questa possibilità che dà alla conformità della proposizione l’apparenza di realizzare in generale l’essenza della verità. Da dove l’asserire rappresentativo riceve la consegna di conformarsi all’oggetto e di accordarsi con esso secondo la norma della conformità?” Questo “è possibile solo se questo prospettare si è già liberamente offerto in una apertura per ciò che in essa si impone come manifesto, vincolando ogni rappresentare”. Il “libero offrirsi a una direttiva vincolante è possibile se si è liberi” per quello “che in un’apertura è manifesto. Questo essere liberi indica l’essenza della libertà che finora è rimasta incompresa. La costante apertura del comportarsi che rende possibile la conformità, si fonda sulla libertà. L’essenza della verità, compresa come conformità dell’asserzione, è la libertà”.

La verità, fin qui, è stata relegata nella soggettività umana. Anche la possibile oggettività rimane comunque legata alla soggettività.

Gli oppositori “alla tesi che l’essenza della verità” sia “la libertà, poggia” sull’affermazione che “la libertà è una proprietà dell’uomo” e “l’essenza della libertà non necessita di ulteriori interrogazioni”, poiché “cosa sia l’uomo” è noto a tutti.

“[…] La libertà è il fondamento dell’intrinseca possibilità della conformità, poiché essa riceve la propria essenza dall’essenza più originaria della verità che, sola, è veramente essenziale”. La libertà è stata definita “come libertà per ciò che è manifesto in un’apertura”. […] “Ciò che è manifesto e a cui un asserire rappresentativo, in quanto conforme, si adegua, è l’ente che di volta in volta è aperto in un comportarsi costantemente aperto. […] La libertà” è “il lasciar-essere l’ente”.

Il lasciar-essere, però, non ha qui il significato di desistere o rinunciare a qualcosa. Qui, “lasciar-essere è lasciarsi coinvolgere dall’ente”, cioè “lasciarsi coinvolgere da ciò che è aperto nella sua apertura”, portandola con sé. Questo è stato concepito come tà aletheia, lo svelato. Quindi, se traduciamo aletheia con “svelatezza” invece che con “verità”, la ripensiamo nell’orizzonte della svelatezza e dello svelamento dell’ente.

“Il lasciar-essere, cioè la libertà, è es-ponente, e-sistente”. Alla luce dell’essenza della verità, “l’essenza della libertà si rivela come l’es-porsi nella svelatezza dell’ente”. Il senso comune dice che la libertà è arbitrio a volte emergente che nella scelta si butta “ora da un lato, ora da un altro. La libertà non è l’indipendenza del poter fare o non fare qualcosa” e “neppure la […] disponibilità per un che di richiesto e necessario. […] La libertà è lasciarsi coinvolgere e-sistente grazie a cui l’apertura dell’aperto”, cioè “il “ci” dell’esserci è ciò che è”.

Il fondamento essenziale dell’uomo è riposto nell’esser-ci e consente all’uomo di e-sistere. L’e-sistenza radicata nella verità come libertà è l’es-posizione nella svelatezza dell’ente in quanto tale.

La storia nasce dove l’ente è elevato e custodito espressamente nella sua svelatezza, dove questa custodia è intesa a partire dalla domanda sull’ente in quanto tale.

A disporre della libertà non è l’arbitrio umano. L’esser-ci, il lasciar-essere l’ente, libera l’uomo per la sua “libertà”. Essa gli sottopone delle possibilità e gli impone delle necessità. “L’uomo non ‘possiede’ la libertà come una sua proprietà”, tutt’al più al contrario: “la libertà, l’esser-ci e-sistente e svelante, possiede l’uomo in un modo così originario che solamente essa consente a un’umanità il riferimento all’ente nella sua totalità, il quale soltanto fonda e caratterizza ogni storia”. Solo l’uomo e-sistente è storico, la natura (physis) non ha storia.

“La libertà […] in quanto lasciar-essere l’ente attua e realizza l’essenza della verità nel senso dello svelamento dell’ente. La “verità” non è un connotato della proposizione conforme che viene enunciata da un ‘soggetto’ umano a proposito di un ‘oggetto’ e che poi ‘vale’ non si sa in quale ambito, ma è lo svelamento dell’ente grazie a cui un’apertura dispiega la sua essenza […]”.

Dobbiamo ora indagare la non-essenza della verità che è il passo decisivo per porre adeguatamente la domanda sull’essenza della verità.

Ogni comportarsi dell’uomo storico è in uno stato d’animo e mediante questo stato d’animo costui è coinvolto nell’ente nella sua totalità.

Dal punto di vista della verità come svelatezza, la velatezza è allora la non svelatezza e, quindi, la non verità autentica e più appropriata all’essenza della verità. La velatezza dell’ente nella sua totalità, l’autentica non-verità, è più antica di ogni evidenza di questo o quell’ente ed è più antica anche dello stesso lasciar-essere che nel momento in cui svela già tiene velato e in rapporto a ciò si comporta.

“Nel lasciar-essere che svela e contemporaneamente vela l’ente nella sua totalità, accade che il velamento appaia come ciò che è in primo luogo velato. L’esser-ci in quanto e-siste custodisce la prima e più ampia non-svelatezza, la non-verità autentica. L’autentica non-essenza della verità è il mistero”.

“E-sistendo, l’esserci è insistente”.

L’uomo erra e “l’erranza fa parte della costituzione intrinseca dell’esser-ci in cui l’uomo storico è coinvolto”. “L’erranza è l’opposizione essenziale […] all’essenza iniziale della verità. L’erranza è la dimora aperta e il fondamento dell’errore”. […] L’errore va dalle più comuni azioni sbagliate, dalle sviste e dai calcoli inesatti fino al perdersi e all’essere bizzarri negli atteggiamenti e nelle decisioni essenziali. Stando pure alle dottrine filosofiche l’errore è la “non-conformità del giudizio e la falsità della conoscenza è in realtà solo un modo di errare […], il più superficiale. L’erranza è essenzialmente connessa all’apertura dell’esserci. L’erranza domina e fuorvia l’uomo. Come fuorviamento l’erranza crea allo stesso tempo una possibilità di non lasciarsi fuorviare facendo esperienza dell’erranza stessa e non misconoscendo il mistero dell’esser-ci. L’essenza della verità nella sua pienezza che include la sua non-essenza tiene l’esserci con questa costante svolta del volgersi di qui e di là, nella situazione di necessità”. L’esserci è la svolta nella necessità.

La libertà, concepita a partire dall’in-sistente e-sistenza dell’esserci è l’essenza della verità e ciò solo per il fatto che la libertà stessa nasce dall’essenza iniziale della verità, dal dominare del mistero nell’erranza. “Il lasciar-essere l’ente si realizza nel comportarsi che si tiene aperto”.

Allora la ri-solutezza per il mistero è sulla via dell’erranza come tale. Quindi, la questione dell’essenza della verità è posta in maniera più originaria. Qui si scopre il fondamento della implicanza tra l’essenza della verità e la verità dell’essenza. La prospettiva che dall’erranza va sul mistero è il domandare nel senso di quella che è l’unica domanda: “che cos’è l’ente come tale nella sua totalità? Questo domandare pensa il problema dell’essere dell’ente” che viene inteso a partire da Platone come “filosofia” e solo dopo assume il titolo di “metafisica”.

“La questione dell’essenza della verità scaturisce dalla questione della verità dell’essenza. La prima questione intende l’essenza anzitutto nel senso della quiddità (quidditas) o della cosalità (realitas)”, perciò “la verità come carattere della conoscenza. La questione della verità dell’essenza pensa l’essenza in senso verbale” e, rimanendo all’interno della metafisica, “pensa con questa parola l’essere come differenza che domina tra essere […] ed ente. Verità significa quel velarsi diradante […] che è il tratto fondamentale dell’essere […]”. Il velarsi diradante lascia essere la concordanza tra la conoscenza e l’ente.

“La risposta alla questione dell’essenza della verità è il dire […] di una svolta […] entro la storia dell’essere […]. Poiché all’essere […] appartiene un velarsi diradante, esso appare inizialmente alla luce di un sottrarsi che vela. Il nome della radura […] è aletheia”.

“ […] Solo a partire dall’esserci, in cui l’uomo può entrare, si prepara per l’uomo storico una vicinanza alla verità dell’essere”.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022 e Silele Edizioni (La Tela Nera) nel 2023.
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