Determinazione, autodeterminazione, alterità.

Cultura e diritto
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di Sergio Mauri

Vediamo la questione della possibilità di determinare la nostra personalità. Un limite è dato dal buoncostume. Alla base c’è un’evoluzione di significato della Corte costituzionale. Si aggiunge alla questione dell’ordine pubblico. Il buoncostume è ricompreso in quell’insieme di principi che caratterizzano un determinato momento storico della comunità nazionale. Un ordine pubblico legato al libero sviluppo della personalità dovrebbe essere aperto a comportamenti che non siano lesivi per gli altri, ma nemmeno afflittivi, laddove possano ledere gli altri. Vediamo, dunque, come si comporta la maggior parte della gente e legisliamo di conseguenza. È una prospettiva, tuttavia, quasi relativistica. Il pudore è una protezione, diventa tale.

Il problema dell’alterità è a noi presente quando convivono nel territorio genti con più o meno diversi comportamenti socio-culturali rispetto a noi. Da una parte dovrebbe essere tutelata l’alterità e intervenire solo nel caso questa manifestazione causi danni agli altri. Un eventuale intervento censorio deve tener conto della “motivazione culturale”. All’interno di una certa cultura non c’è solo la giustificazione, ma addirittura una doverosità.

Argomenti a favore di questo reato culturalmente motivato: si tratta di una sentenza della Corte costituzionale n. 364 del marzo 1988 (sentenza che potremmo definire “buonista”). Concentra la sua attenzione sulla colpevolezza. In genere un reato si costituisce con una serie di elementi: 1) il fatto 2) l’affermazione dell’ordinamento giuridico della fattispecie di reato (antigiuridicità del fatto) 3) la imputabilità. Sono tutti elementi formali. Inoltre, la colpevolezza che non è altro che la riferibilità psichica all’attore o all’agente. Bisogna, dunque, vedere se il colpevole ha voluto compiere quell’atto.

Nel caso del danneggiamento bisogna a esempio vedere la piena (o meno) riferibilità psichica. Abbiamo, quindi, il reato colposo e quello doloso.

Un reato implica l’erogazione di una pena e la sua esecuzione e perciò la colpevolezza è fondamentale. Erogazione ed esecuzione della pena hanno una funzione rieducativa. Art. 27 della Costituzione: la pena ha una funzione rieducativa. Potrebbe anche avere una funzione preventiva. La pena potrebbe avere la funzione di indicare alla comunità quale sarebbe la pena. Prevenzione generale. Il reo è strumento di un messaggio che giunge ad altri. È un deterrente. Prevenzione speciale, anche. Potrebbe anche avere funzioni retributive.

Ma la funzione della pena, per noi è rieducativa. In assenza di colpevolezza la pena non produce effetti rieducativi, sarebbe solo un momento afflittivo. La Corte costituzionale ci dice anche che la colpevolezza va fondata su congrui elementi subiettivi.

Ecco, dunque, che nella sentenza della Corte costituzionale ci sta il “reato culturalmente motivato”. Questo reato si riferisce a un fatto successo a Padova negli anni Ottanta al gestore di un bar multato dalla Tributaria dopo aver comunque presentato al Comune tutta la documentazione necessaria per installare nel suo locale un flipper e la musica nel locale stesso.

Si tratta di un reato artificiale, costruito, non naturale, ovvero dove si abbia immediata evidenza. La sentenza 364 mostra una certa anima, ma nel 1992 quando ci sono le stragi di mafia, il discorso cambia. Non può, la pena, avere la prevalenza di uno dei tre elementi: rieducativo, (afflittivo?) preventivo, distributivo. Vedi anche il regime del 41 bis.

Tutta la ricerca del diritto si fonda sull’argomentazione, non su verità matematiche o meno. Il diritto è opinione, contrariamente alla matematica. La filosofia è argomentazione, non è logica deduttiva. Né la filosofia, né il diritto sono calcolo, sono opinioni tuttavia argomentate e non gettate allo sbaraglio. Dunque, un reato può essere culturalmente motivato riguardo alla vacuità della ricostruzione dell’elemento di colpevolezza. Cioè, non si tratta tanto di aver intenzione di fare una cosa, ma dell’essere d’accordo col mio sistema di valori culturali in modo da pensare di fare una cosa per dovere, un dovere imposto dalla cultura di appartenenza.

Cultura giuridica interna: degli operatori del diritto.

Cultura giuridica esterna: la nostra, quella delle persone comuni.

Quindi, colui che compie un reato culturalmente motivato lo compie in ossequio alla propria cultura, non alla nostra. Non vi è, dunque, il conflitto tra cultura giuridica e legalità, ma fra due culture giuridiche diverse. Il reo è in sintonia con la propria cultura giuridica. Quindi, lo straniero in Italia esprime il proprio personale contesto in cui si è formato. La sua colpevolezza, dunque, non può essere completamente acclarata. Quindi, si rende necessario il “reato culturalmente motivato”. Al reo si può chiaramente dire che avrebbe dovuto informarsi sugli usi e le regole del paese ospite. La pena erogata, tuttavia, non può sviluppare appieno la pena stessa. Altrimenti assumerebbe dei connotati afflittivi non consoni alla sentenza della Corte costituzionale. A fronte dei reati di pericolo, l’intervento censorio non può essere solo repressivo, ma dovrebbe articolarsi in politiche multiculturali. Ciò che avviene in altri paesi europei (uso del casco per i Sikh). La mutilazione sessuale femminile, reato di danno, è un “reato culturalmente motivato” in Svezia e successivamente lo è diventato nel Regno Unito.

L’ordinamento francese non segue il “reato culturalmente motivato” e non ammette tutto ciò che non è in accordo con il dettato dell’Ottantanove. E noi? Ci facciamo riconoscere. Tra le due prospettive che strada abbiamo preso?

Sergio Mauri
Autore: Sergio Mauri, Blogger. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014, con PGreco nel 2015 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022 e Silele Edizioni (La Tela Nera) nel 2023.
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