di Sergio Mauri
Mentre “le conoscenze scientifiche sono di consueto espresse in proposizioni e prospettate come risultati tangibili da utilizzare”, la “dottrina di un pensatore” è ciò che è non detto, “a cui l’uomo è esposto affinché vi si prodighi”. Per comprendere il non-detto di un pensatore dobbiamo ripensare ciò che ha detto. Ciò che non è stato detto da Platone è una svolta intervenuta nella determinazione dell’essenza della verità. Cosa significa? Lo scopriremo interpretando il “mito della caverna”. Il mito narra una storia, la narrazione si svolge nel dialogo tra Socrate e Glaucone. Il primo espone la storia, il secondo manifesta lo stupore che si risveglia in lui nell’esposizione. La dimora dalla forma di caverna è l’immagine; il fuoco che arde nella caverna al di sopra di coloro che la abitano è “l’immagine” del sole; la volta della caverna rappresenta la volta del cielo; sotto la volta vivono gli uomini assegnati alla terra e alla terra legati. Ciò che li circonda e li riguarda è per loro il reale, cioè l’ente.
In questa caverna si sentono a casa, nel mondo, nella loro quotidianità e trovano ciò a cui affidarsi. Le cose di cui nel mito si dice che divengono visibili fuori dalla caverna sono invece l’immagine di ciò che, nell’ente, è ente in senso proprio. Per Platone questo è ciò attraverso cui l’ente si mostra nella sua e-videnza. L’e-videnza non è intesa da Platone come semplice aspetto, è lo stesso ente che si mostra stando nella sua e-videnza. E-videnza in greco si dice idèa. Nel mito le cose fuori dalla caverna, alla luce del giorno, sono l’immagine delle “idee”. “Nel ‘mito’ le cose che si mostrano da sé sono l’’immagine’ delle ‘idee’”. Il sole invece è l’immagine “di ciò che rende visibili tutte le idee”. È l’idea di tutte le idee; è l’idea del bene.
“Il ‘mito’ […] non descrive solo i vari soggiorni e situazioni dell’uomo all’interno e all’esterno della caverna, ma narra i processi. I processi […] sono dei passaggi dalla caverna alla luce del giorno, e da questa di nuovo alla caverna”. I vari passaggi dalla caverna alla luce del giorno e viceversa richiedono che gli occhi si abituino alla differente intensità della luce. Ciò significa “o che l’uomo, partendo da un’ignoranza appena avvertita, può giungere là dove l’ente gli si mostra in modo più essenziale, non essendo però in un primo momento all’altezza di ciò che è essenziale” o che “l’uomo può cadere fuori dall’atteggiamento proprio di un sapere essenziale e andare a finire” nell’ambito del pensiero quotidiano senza tuttavia riconoscerne la realtà. Allo stesso modo degli occhi anche l’anima deve adattarsi “all’ambito dell’ente in cui si trova assegnata”.
Allora ciò che è determinante è qui l’orientarsi del nostro sguardo, la periagoghé, la conversione dello sguardo, “la guida di tutto l’uomo nella sua essenza a un mutamento di direzione” di Platone. Secondo Platone il mito della caverna illustra l’essenza della formazione, la paideia, che si attua in una continua tensione col suo contrario, l’apaideusia, la mancanza di formazione. La paideia significa “imprimere un carattere e con-formare a un modello”. Essa non è intesa come un accumulo di competenze, ma come modifica, conversione dello sguardo attuabile solo attraverso una diversa postura di tutto il nostro corpo. Fondamentale è la partecipazione di tutto il “noi stessi”.
Dunque, il mito della caverna illustra l’essenza della formazione (paideia). Dobbiamo ora capire come essa si colleghi alla dottrina della verità in Platone, quale sia, cioè, la legge nascosta che a essa ci può portare. C’è una relazione tra formazione e verità e “consiste nel fatto che soltanto l’essenza della verità e la modalità del suo mutamento rendono possibile ‘la formazione’ nella sua struttura fondamentale”.
Paideia vuol dire trasformazione di tutto l’uomo, trasferimento e adattamento “dall’ambito delle cose che gli si presentano per prime all’ambito dove appare l’ente stesso”. Muta, quindi, ciò che all’uomo è svelato sia il modo della svelatezza. La svelatezza è a-letheia con la a privativa, poiché la verità è strappata alla velatezza. L’ente, in quanto presente, ha l’essere nell’apparire e questo porta con sé la svelatezza. Per l’Occidente aletheia è tradotta con verità e significa adequaetio intellectus et rei.
Torniamo al mito. La storia riguarda i passaggi da un soggiorno all’altro. I soggiorni sono quattro. Ogni passaggio si fonda su un diverso alethes rispettivamente determinante, cioè del tipo di “verità” che domina di volta in volta. L’alethes viene pensato e nominato ad ogni grado.
“Nel primo grado gli uomini vivono incatenati nella caverna e sono tutti presi da ciò che anzitutto viene loro incontro”. Essi prendono per ciò che è svelato le ombre degli oggetti. Nel “secondo grado” si “tratta della liberazione dalle catene. Ora i prigionieri sono […] liberi, restano rinchiusi nella caverna. Qui però possono […] volgersi da tutte le parti”. Possono quindi vedere le cose che prima venivano trasportate alle loro spalle. In questa condizione essi giungono alla regione degli alethestera, ovvero “di ciò che è più svelato”. Il bagliore del fuoco acceca chi non vi è abituato. “L’accecamento gli impedisce di vedere il fuoco stesso e di percepire come il suo risplendere illumini le cose e così le faccia apparire”. Quindi, “l’essere lasciato libero non è ancora la vera libertà”. Nel terzo grado si raggiunge la libertà col trasferimento fuori dalla caverna, alla luce del sole. “Le vedute di ciò che le cose in sé stesse sono”, le idee, “costituiscono l’essenza nella cui luce ogni singolo ente si mostra come questo o quell’ente, e solo in tale mostrarsi ciò che appare diviene svelato e accessibile”. Lo svelato qui è quello vero e proprio. Esso è alethesteron, “ancor più svelato di quanto non lo siano le cose artificialmente illuminate all’interno della caverna rispetto alle ombre”. Il “massimamente svelato” raggiunto è ta alethestata. Esso si mostra in ciò che, di volta in volta, l’ente è. Questo grado di liberazione è quello che richiede la massima pazienza e il massimo sforzo. La liberazione non è semplicemente l’assenza di vincoli, “ma comincia solo quando ci si abitua costantemente a fissare lo sguardo sui contorni netti delle cose che stanno ferme nella loro e-videnza”. Questo rivolgersi realizza l’essenza della paideia in quanto “mutamento di direzione”. Il compimento della formazione si compie solo nel massimamente svelato, nell’autentica verità. “L’essenza della ‘formazione’ si fonda sull’essenza della ‘verità’”. La paideia ha la sua essenza nella periagoghé e rimane quindi un superamento dell’apaideusia.
Tuttavia, la narrazione non si ferma qui, ma continua col grado più alto, il quarto, quello della ridiscesa nella caverna. Il liberatore ridisceso nella caverna non riesce più a orientarsi nel buio e rischia di soccombere alla realtà “comune” imperante nella stessa. È qui che il mito si compie. Qui l’alethes non è più trattato, ma lo svelato deve comunque essere affrontato. Come? In questo senso: “lo svelato deve essere strappato alla velatezza”. Una velatezza che può articolarsi in vari modi: “può significare rinchiudere, custodire, celare, coprire, mascherare, simulare”. “In generale, questo ‘mito’ può essere costruito sull’’immagine’ della caverna solo perché è fin dall’inizio determinato […] dall’aletheia […]. Che cos’è, infatti, la caverna sotterranea se non qualcosa che in sé è aperto, ma che nello stesso tempo è coperto da una volta e che, nonostante l’entrata, resta chiuso entro le pareti della terra?”.
Nel mito inoltre “il vigore plastico della descrizione non scaturisce dall’immagine della chiusura della volta sotterranea e della prigionia in essa, e nemmeno dalla veduta dello spazio aperto all’esterno della caverna”. Al contrario “si concentra piuttosto, per Platone, nel ruolo che hanno il fuoco, il suo chiarore, le ombre, il chiaro del giorno, la luce del sole e il sole. Tutto dipende dal risplendere di ciò che appare e da ciò che ne rende possibile la visibilità. La svelatezza, […], in realtà viene considerata solo in relazione al modo in cui rende accessibile nella sua e-videnza […] ciò che appare e visibile ciò che così si mostra […]”, cioè l’idea. L’idea “[…] è essa stessa ciò che risplende, importandole unicamente del proprio risplendere”.
Ciò che è svelato “[…] è concepito fin dall’inizio e unicamente come ciò che è appreso nell’apprensione dell’idea, come ciò che è conosciuto […] nel conoscere […]”. Questo “[…] orientarsi sulle ‘idee’ determina l’essenza dell’apprensione e, in seguito, l’essenza della ‘ragione’ […]”.
Aggiunge Platone (VI, 508, 1): “Ciò, dunque, che concede la svelatezza alla cosa conosciuta, ma che dà anche a chi conosce la capacità (di conoscere), questo, io dico, è l’idea del bene”. Qui il riferimento al to agathon è chiaro ed è poi la via per pensare il bene in senso morale e considerarlo come un valore. Questa interpretazione arriva al suo massimo sviluppo e al capolinea con Nietzsche nella forma della “trasvalutazione di tutti i valori” (Nietzsche il platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale, tuttavia non nel senso dei “valori validi in sé”). “Nel senso greco, quindi, le ‘idee’ rendono atto a che qualcosa possa apparire in ciò che è, e così essere presente in ciò che ha di consistente. […] “Ciò che rende ogni idea atta a essere un’idea, o, detto platonicamente, l’idea di tutte le idee, consiste nel rendere possibile l’apparire di tutto ciò che è presente in tutta la sua visività”. L’idea delle idee è il to agathon che fa risplendere tutto ciò che può risplendere ed è quindi esso stesso ciò che appare. L’”idea del bene” è “ciò che rende atto”. Questa idea è “suprema” in due sensi: 1) come idea più alta nell’ordine di ciò che rende possibile e 2) verticalità e quindi fatica dello sguardo a essa rivolto.
Anche “l’essenza della paideia consiste nel rendere gli uomini liberi e fermi per poter avere una visione chiara e stabile dell’essenza”. È perciò “necessario narrare l’ascesa verso la visione dell’idea suprema” nel mito. Ma allora da qui possiamo muovere e comprendere il processo non detto attraverso cui l’idea si appropria dell’aletheia. “[…] d’ora in poi l’essenza della verità non si dispiega più come essenza della svelatezza a partire da una propria pienezza essenziale, ma si trasferisce nell’essenza dell’idea. L’essenza della verità abbandona il tratto fondamentale della svelatezza”.
È necessario, quindi, guardare nel modo retto. “Già chi è liberato all’interno della caverna […] dirige lo sguardo a ciò che è più ente rispetto alle mere ombre […]”. E il passaggio da una condizione all’altra (i soggiorni) “consiste nel guardare ogni volta in modo più corretto”. Tutto ha a che fare con l’orthotes, cioè la correttezza dello sguardo. Quindi, “il vedere e il conoscere diventano retti, cosicché alla fine si rivolgono direttamente all’idea suprema e si fissano in questa ‘direzione’”. Così “l’apprensione si conforma a ciò che dev’essere veduto. Questa è l’e-videnza dell’ente.”. In virtù di questa adeguazione si costituisce l’omoiosis e, quindi, la verità diventa orthotes ovvero correttezza dell’apprensione e dell’asserzione. Al tempo stesso si segnala un cambiamento del luogo della verità. Dall’ente si sposta nel comportarsi dell’uomo in rapporto all’ente. Abbiamo quindi, nel corso del medesimo ragionamento platonico, la trattazione e discussione dell’aletheia mentre è pensata e assunta l’orthotes.
Procedendo col mito della caverna, (517 b, 7 -c, 5) abbiamo due asserzioni nelle quali non possiamo dire che l’aletheia corrisponda all’ortha e il nous al chala (xalà), ma all’ortha il nous e l’aletheia al chala. A ciò che è corretto e alla sua correttezza corrisponde la retta apprensione; mentre al bello corrisponde lo svelato. La caratterizzazione dell’essenza della verità come correttezza del rappresentare asserente è divenuta determinante per tutto il pensiero occidentale. Tesi capitali a sostegno della caratterizzazione dell’essenza della verità nel tempo:
- Scolastica medievale, vale la tesi di Tommaso d’Aquino: la verità si trova propriamente nell’intelletto umano o divino. Nell’intelletto ha il suo luogo essenziale. La verità qui è adaequatio.
- Cartesio: verità o falsità in senso proprio non possono essere in nessun altro luogo se non nel solo intelletto.
- Nietzsche: la verità è quella sorta di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere. Il valore per la vita è quello che alla fine decide.
Col pensiero di Nietzsche la metafisica ha iniziato il suo incondizionato compimento. Nel mito della caverna abbiamo ciò che accade nel presente e nel futuro dell’umanità occidentale: l’uomo pensa nel senso dell’essenza della verità come correttezza del rappresentare tutto ciò che è secondo “idee” e valuta ogni realtà in base a “valori”. La sola cosa decisiva non è quali idee e quali valori vengano posti, ma il fatto che, in generale, il reale è interpretato in base a “idee” e il “mondo” valutato in base a “valori”.
La verità, cioè la svelatezza, non può mai essere assunta come quella di Platone, cioè nel soggiogamento all’idea. In senso platonico la svelatezza resta vincolata al riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare, all’asserire. Quindi si abbandona l’essenza della svelatezza. “Da quando l’essere è interpretato come idea il pensiero rivolto all’essere dell’ente è metafisico e la metafisica è teologia.”. In Platone l’inizio della metafisica è anche inizio dell’umanismo. Quest’ultimo è un processo dove al centro c’è l’uomo “nel bel mezzo dell’ente, senza essere già per questo l’ente privilegiato”.
Bisogna prima apprezzare la positività dell’essenza privativa dell’a-letheia. Questa positività deve essere esperita come tratto fondamentale dell’essere. Deve poi essere necessario che non si chieda solo dell’ente nel suo essere, ma anche dell’essere stesso, cioè della differenza. Ma non ci si chiede più dell’essere, anzi la domanda deve ancora venire, la verità (la sua essenza iniziale) è ancora velata.