L’uomo e la sua storia, tra barbarie e aspirazione alla giustizia.

L'uomo e la sua storia, tra barbarie e aspirazione alla giustizia
L'uomo e la sua storia, tra barbarie e aspirazione alla giustizia

di Sergio Mauri

Per millenni l’umanità è sopravvissuta basandosi esclusivamente su quel poco che la sua fatica ed il suo sudore le permettevano di strappare alla terra; veniva periodicamente falcidiata da carestie e epidemie di fronte alle quali non aveva altro rifugio che mettersi a supplicare la divinità di turno; era costretta a subire le angherie e le sevizie che le infliggevano via via tiranni, despoti e orde di eserciti invasori.
Oggi, invece, la scienza ci ha resi in grado di comprendere buona parte degli aspetti della natura che più spaventavano i nostri progenitori, la medicina ci permette di combattere e vincere praticamente tutte le malattie che facevano stragi fino al secolo scorso, i progressi della tecnica e le enormi capacità produttive che in seguito a questi abbiamo sviluppato hanno fornito all’uomo la possibilità di sfamare non quattro miliardi, ma dieci miliardi di persone e non solo di sfamarle, ma di farle vivere bene e in armonia con l’ambiente naturale.
Ebbene se guardiamo un po’ fuori dal nostro guscio vediamo intorno a noi popolazioni analfabete, che vivono di stenti (e in molti casi muoiono letteralmente di fame) tra miseria, sporcizia e malattie. In questo preciso momento l’80% della popolazione vive con non più di 10 $ al giorno. Anche ammettendo che esistono diversi stili e valori del denaro in giro per il mondo, dobbiamo constatare che l’80% della popolazione mondiale può venire nel “primo mondo” non per vacanza! Giusto?
Ma anche nei paesi “ricchi” le cose non sono poi così rosee; basti pensare che un regolare lavoratore salariato (che ormai comincia ad essere una specie in via d’estinzione visto l’espandersi del lavoro nero e dei lavori precari) sacrifica un terzo o più della sua giornata, un altro terzo lo deve dedicare al riposo ed il restante terzo agli spostamenti per andare e tornare dal lavoro, al mangiare e al farsi rincoglionire dalla televisione; già, perché cos’altro potrebbe pensare di fare un povero cristo sottoposto ai ritmi lavorativi attuali di quelle poche ore che gli rimangono per sé? Senza andare quindi a cercare situazioni ancora più gravi, un normale salariato passa ancora oggi la maggior parte della sua esistenza a lavorare per mantenersi in vita o poco più.
Viene allora naturale chiedersi perché dopo aver sviluppato tali conoscenze e così potenti capacità produttive non siamo ancora riusciti a vincere la miseria la precarietà e l’asservimento al lavoro. Riusciamo a costruire macchine in grado di produrre quantità esorbitanti di beni e che necessitano solo di essere programmate e alimentate; basterebbe allora costruirle e lasciarle lavorare per godere della manna che queste possono produrre e invece miseria malattia e fatica dominano ancora l’esistenza della stragrande maggioranza degli uomini e delle donne. Cos’è che non funziona? Tutti vi sarete probabilmente chiesti dove sta l’inghippo. Perché mentre la fame e la malnutrizione infieriscono su almeno la metà dell’umanità, le praterie americane che potrebbero produrre montagne di grano lo fanno solo in minima parte ? E perché assistiamo ogni anno all’ignobile distruzione di frutta e ortaggi? E perché lo Stato italiano e la UE pagano profumatamente proprietari terrieri e allevatori affinché non coltivino le loro terre e non producano più di determinate quantità di latte e di carne?
Perché un lavoratore è costretto a sacrificare al lavoro la propria esistenza per ottenere soltanto quel che basta a sostenere sé stesso (e ora neanche più la sua famiglia) mentre c’è gente che con poche telefonate guadagna miliardi e che senza produrre niente consuma quanto altre cento o mille persone?
Perché le fabbriche chiudono cessando così di produrre quando invece ci sarebbe bisogno di produrre di più e il disoccupato non trova lavoro quando invece chi è occupato viene spremuto sempre di più?
E perché l’ambiente viene devastato e le risorse naturali dilapidate (piccolo esempio il fatto che la maggior parte delle merci viaggino sui TIR piuttosto che sui binari) quando sarebbe possibile vivere (senza cioè dover rinunciare molto al nostro attuale livello di vita) ed in perfetta armonia con la natura?
E le guerre? Perché assistiamo a un divampare sempre più cruento e barbaro della violenza in ogni parte del mondo?
In genere ci si sente rispondere che queste sono le leggi del mercato, che senza il mercato l’economia non può funzionare che per stare sul mercato le aziende devono produrre degli utili e che a questo fine si deve sacrificare tutto il resto.
Altri invece ci dicono che la soluzione sta nel controllo e la pianificazione dell’economia da parte dello Stato. Certamente il salto di qualità ci sarebbe, è inutile negarlo, basta guardare a paesi fino a poco tempo fa ancora in via di sviluppo ed oggi molto più avanti a noi in termini sociali.
Ma non dobbiamo accontentarci di queste risposte.
Secondo noi il nocciolo del problema sta in questo: se abbiamo le capacità, le possibilità di produrre benessere per tutti, ma questo non avviene c’è evidentemente un problema di organizzazione economica e sociale.
Andiamo allora a vedere com’è organizzata attualmente la produzione qui da noi (da essa infatti dipende la disponibilità di beni per l’individuo). Da tempo ormai domina in tutto il mondo un unico sistema di produzione che è il capitalismo. In questo tipo di sistema economico l’unico stimolo alla produzione è rappresentato dall’aspettativa di un profitto. Il possessore di capitale, infatti, investe il suo denaro unicamente se questo atto gli procurerà un ritorno di una quantità di denaro in misura sufficientemente maggiore di quella che ha investito. Il suo scopo non è produrre qualcosa di utile per la società (sul mercato vengono immessi quotidianamente montagne di merci assolutamente inutili o di utilità relativa in confronto alle reali necessità della società: macchine, fast food, pellicce, giochini elettronici quando servirebbero metropolitane, case, istruzione, ospedali umani), ma qualsiasi cosa che possa essere venduta a un prezzo tale da produrre un profitto. Al capitalista non interessa soddisfare un bisogno sociale o “dar lavoro” a dei disoccupati, come vuol farci credere una certa ideologia paternalistica borghese, ma guadagnare. Queste sono d’altronde le regole cui deve attenersi se intende continuare a mantenere la sua posizione all’interno della società, posizione che gli consente di far lavorare gli altri e di godere del frutto del loro lavoro. Egli non è “cattivo” nel momento in cui cerca di contenere i salari dei suoi operai e impiegati o nel momento in cui li licenza, egli deve semplicemente rispettare le regole di questo sistema che gli impongono il perseguimento del massimo profitto.
nella società capitalista allora il soddisfacimento dei bisogni sociali è solo una conseguenza indiretta della ricerca di profitto dei singoli borghesi, talmente indiretta che questi bisogni, quelli reali, risultano molto poco soddisfatti.
Già questo basterebbe per bocciare questo sistema come irrazionale ed inefficace mentre sarebbe ragionevole e necessario passare ad un nuovo sistema in cui la produzione sia svincolata dalla produzione di profitto, ma abbia come unico stimolo e obbiettivo il soddisfacimento dei bisogni sociali ovvero di tutti gli individui che compongono la società.
Ma c’è dell’altro.
Prendiamo in considerazione una qualsiasi merce che possiamo acquistare sul mercato, un capo di abbigliamento per esempio. Ebbene nel prezzo di questa merce, che teoricamente rappresenta tutto il lavoro che è stato fatto per produrla, non sono compresi solo i costi effettivi di produzione, ma sono compresi anche costi per pubblicità, indagini di mercato, assicurazioni, interessi bancari ecc.; tutte queste spese e tutto questo lavoro non sarebbero necessari in una società in cui il fine della produzione sia esclusivamente il soddisfacimento dei bisogni umani; siamo in presenza, quindi, di un enorme sperpero di risorse umane e materiali che potrebbero essere meglio utilizzate nella produzione di qualcosa di più utile. Riprenderemo, però, più avanti questo discorso.
Si obbietterà che comunque questo sistema economico ha prodotto molto benessere ed ha notevolmente innalzato le condizioni generali di vita dell’uomo; facciamo pure finta di accettare questa ipotesi (perché se ben guardiamo le masse disperate africane, brasiliane e indiane che rappresentano una buona percentuale dell’umanità non vivono certo in condizioni più serene delle tribù indigene amazzoniche e australiane che ancora non sono state trascinate nel gorgo capitalista), ma questo miglioramento, a ben guardare, si è arrestato già dagli anni settanta con l’inizio della crisi di ciclo del capitalismo ed ha avuto strascichi solo molto relativi (determinati esclusivamente dal fatto che con l’aumento della produttività del lavoro sono arrivate sul mercato grandi masse di merci a prezzi ridotti mentre invece il potere di acquisto reale dei lavoratori per quanto riguarda ciò che è veramente importante casa, assistenza sanitaria, servizi in generale è continuamente diminuito) e solo nei paesi più sviluppati fino alla prima parte degli anni ottanta. Per i paesi che fino a quel periodo – i primi anni settanta – erano considerati ed erano effettivamente in via di sviluppo (nel Nord Africa, Sud America) è cominciata una drammatica parabola discendente che gli ha portati alla situazione esplosiva attuale; ma anche nei paesi più industrializzati che, data la loro maggiore potenza industriale – finanziaria, sono riusciti a tamponare e contenere fino ad ora gli effetti della crisi si è cominciato a sentire da alcuni anni gli effetti devastanti che questa ha sulla società. Per inciso, chi subisce gli effetti della crisi, non sono i “paesi”, ma i lavoratori salariati (o chi avrebbe bisogno di lavorare) quelli che, con una parola fuori moda, ma che esprime ancora un concetto assolutamente attuale, Marx chiamava proletari; i capitalisti, i borghesi, chi cioè si appropria del lavoro altrui, continuano a spassarsela sia qui che nel terzo mondo ciò che li può preoccupare è il fatto che l’instabilità sociale prodotta dalla crisi possa far traballare il loro bel sistema.
Da più di trent’anni dunque la crisi di ciclo del capitalismo sta attanagliando l’economia mondiale e di questo le vittime più illustri sono stati i cosiddetti paesi del socialismo reale. Diciamo di stato, in quanto questo era l’unico detentore di capitale e diciamo capitalismo in quanto lo stato agiva esattamente come un capitalista privato, ossia investiva per ottenere un profitto. Anche se non eravamo in presenza di un mercato, le regole fondamentali del capitalismo dovevano essere rispettate anche là, perché l’economia potesse funzionare era necessario quindi produrre profitto, non c’erano scappatoie. Riprenderemo anche questo discorso più avanti.
Ma era importante far notare già da ora che anche questi paesi sono rimasti vittime degli stessi meccanismi e della stessa crisi, ripetiamo, globale che ha colpito paesi capitalisti tradizionali. Ma perché si è verificata questa inversione di tendenza?
Non è certo una questione che possiamo dipanare in poche righe, ci limitiamo ad enunciare, senza necessariamente poterla spiegare, la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto; teoria che riteniamo essere ancora l’unica in grado di fornire una spiegazione ai fenomeni che stiamo vivendo. Detto in maniera molto spicciola il problema sta nella progressiva automatizzazione della produzione; il profitto del capitalista deriva infatti dal lavoro che egli non retribuisce ai suoi operai (questi possono anche produrre cento, ma per vivere a loro bastano 30, state sicuri che non gli verrà dato più di 40) mentre il capitale investito in macchinari e materie prime non può produrre profitto, ritorna pari pari nel prezzo finale della merce. Data quindi l’automatizzazione progressiva della produzione, si è ridotta enormemente la percentuale di capitale investita in lavoro umano, quella da cui si genera Il profitto o meglio il plus valore rispetto alla percentuale di capitale investito in macchinari e materie prime. Si è ridotta quindi tendenzialmente la percentuale dei profitti in relazione ai capitali investiti. La conseguenza è che essendo sempre più difficile investire con una aspettativa di profitti adeguata, semplicemente si investe di meno nella produzione, si produce quindi di meno, si lavora di meno…. e tutto il meccanismo tende ad incepparsi.
Nonostante tutte le contromisure che la borghesia internazionale tenta di adottare da più di vent’anni, non ci sono per la borghesia internazionale vie d’uscita da questa situazione tant’è vero che sperano (ma probabilmente non ci contano tanto neanche loro) di risolvere i loro problemi continuando ad automatizzare sempre più la produzione per imporsi sulla concorrenza.
Una spirale perversa che prima o poi dovrà portare ad una esplosione fragorosa.
Altro inciso, la progressiva automatizzazione della produzione ha generato anche nei paesi più industrializzati una massa enorme di disoccupati e sottoccupati che la borghesia stessa definisce “strutturale” cioè non più riassorbibile e probabilmente la prospettiva di un forte deterioramento della situazione sociale, per ora solo lontanamente ma probabilmente in futuro più concretamente, a preoccupare i oro pensieri.
Possiamo allora dire che il capitalismo come metodo di produzione ha raggiunto e da tempo superato i limiti superiori del suo campo si esistenza oltre i quali semplicemente non funziona più. Il capitalismo ha avuto bisogno per svilupparsi ed affermarsi che le forze produttive avessero raggiunto un certo livello di sviluppo il quale potesse consentire una sufficiente produttività del lavoro (e questi li possiamo considerare i limiti inferiori del suo campo di esistenza), oggi i mezzi di produzione hanno raggiunto un tale grado si sviluppo che questo sistema non è più in grado di gestirli efficacemente. Esso ha avuto un ruolo storico importantissimo, e i marxisti lo hanno sempre riconosciuto, nel determinare lo sviluppo dei mezzi di produzione, ma ormai è stato superato e reso obsoleto da questi stessi mezzi.
E’ necessario quindi cambiare metodo (il come lo vedremo più avanti), mettere finalmente le macchine al servizio della società e non del profitto di pochi, consentire alla tecnologia di spiegare finalmente le sue ali in modo tale da produrre abbondanza di beni per tutti e di far finalmente lavorare le macchine al nostro posto, perché se è vero che l’automatizzazione ha notevolmente ridotto il lavoro umano necessario alla produzione delle merci, è vero però che questo non ha comportato una maggior disponibilità di tempo libero per i lavoratori, ma disoccupazione per molti (situazione no certo positiva) e maggior sfruttamento per chi continua a lavorare (oggi ci fanno lavorare anche di notte, domani lavoreremo anche di sabato e dopodomani…)

CRISI SOCIALE

Per tutti gli anni Ottanta, mentre i paesi della periferia del mondo sprofondavano sempre più nella miseria, nei paesi delle metropoli imperialiste si viveva il sogno del consumismo; la televisione con le sue immagini di plastica ci faceva vivere in un mondo in cui tutti eravamo ricchi (e chi non lo era solo un coglione), le ideologie erano cadute e la divisione in classi della società era una storiella superata del secolo scorso (la stessa classe operaia era considerata in via di estinzione). Un bel giorno Agnelli ci avverte che “la festa è finita” e l’incantesimo si rompe. Si comincia a parlare di crisi, anche se noi ne parlavamo già da vent’anni, e si prospetta la necessità di sacrifici per tutti perché l’azienda Italia (ma la situazione è simile in tutta Europa) è in difficoltà e tutti devono contribuire a salvare la barca. Bene in questa società in cui no esistevano più le classi si comincia a vedere però che i sacrifici andavano a scaricarsi tutti sul gobbone di una determinata categoria di persone e cioè i lavoratori salariati (i moderni proletari). Vengono tagliate le spese sociali (scuola sanità ecc.) nonostante essi continuino a pagare contributi per avere questi servizi, e i fondi che qui dovrebbero arrivare vanno invece a finanziare la borghesia impegnata nelle sue ristrutturazioni e a ingrassare indegnamente borghesia finanziaria che sottoscrive i titoli di stato (facciamola finita con la storiella che BOT e CCT sono nelle mani delle famiglie italiane le nostre tasse vanno a finanziare le rendite di lorsignori!!) Il seguito è un crescendo di bastonate che cadono sempre sul groppone della stessa categoria di persone. Contenimento del costo, eliminazione della scala mobile, flessibilità totale del mercato del lavoro e dell’organizzazione del lavoro (ovvero in altre parole aumento sfacciato dello sfruttamento e sottomissione totale della vita dei lavoratori alle esigenze di maggiori profitti della borghesia sono stati, sono e saranno il pane quotidiano che ci propina la borghesia dicendoci per di più che questo lo fanno nel nostro interesse, per poterci dare più posti di lavoro! E perché l’economia capitalista possa girare è necessario che al capitale siano garantiti sufficienti saggi di profitto e data la situazione di crisi di cui si è già parlato, i proletari debbono accontentarsi d salari più bassi e lavori precari…. debbono sacrificarsi per consentire ala borghesia di continuare ad ingrassarsi sul loro lavoro, e questa no è una società divisa in classi?!
Il problema è che comunque anche tutte queste misure di austerità imposte alla classe operaia non possono essere la soluzione della crisi tant’è vero che è da vent’anni che continuano a riproporle in maniera sempre più pesante e la situazione continua a peggiorare; possono rappresentare solo un tampone temporaneo che consente alla borghesia di riguadagnare temporaneamente margini di profitto, ma non vanno minimamente ad intaccare il meccanismo che sta alla base della crisi e cioè la caduta tendenziale del saggio medio di profitto determinata dall’automatizzazione della produzione. per il momento dilagano in tutto il mondo industrializzato disoccupazione, precarizzazione e povertà e mente ampi settori di proletariato, che fino ad ora avevano mantenuto livelli di vita dignitosi, passano nella condizione di sottoproletari, contemporaneamente altrettanti vasti settori di ceti che un tempo si ritenevano piccolo borghesi – gran parte del mondo impiegatizio – cominciano a constatare ora la realtà della loro condizione, di far parte cioè del proletariato. La situazione comincia a prospettarsi difficile e in un futuro no tanto lontano, potenzialmente pericolosa per gli equilibri della società capitalista; noi attendiamo fiduciosi che il vento della ribellione innescato dall’inasprirsi delle condizioni di vita, cominci a soffiare sopra questo marasma e già da tempo lavoriamo affinché questo vento non si disperda in rivoli innocui, ma si trasformi in una poderosa tempesta che spazzi via questa rivoltante struttura sociale dalla faccia della terra senza lasciarne pietra su pietra.

LA GUERRA

Con la caduta del muro di Berlino tutta la stampa borghese si sperticava nell’osannare alla fine del comunismo e alla vittoria della libertà e della democrazia, facevano a gara a chi suonava più forte le fanfare nel prospettare finalmente un mondo in cui la ricchezza sarebbe arrivata dappertutto e in cui la pace avrebbe finalmente trionfato.
Lasciamo a voi il giudizio che si può trarre sulle falsità dell’ideologia borghese e dei suoi pennivendoli e cerchiamo invece di capire perché guerra e violenza dilagano ovunque nel mondo
Ritiriamo fuori un’altra parola andata fuori moda ma che esprime un concetto molto attuale: l’imperialismo.
Con questo termine ci riferiamo alla forma particolare che ha assunto il capitalismo nella sua fase di decadenza, nel momento in cui non ha più trovato spazio alla sua espansione economica e comincia ad affermarsi il monopolismo. La caduta tendenziale del saggio medio di profitto e la concorrenza hanno costretto il capitale a espandere il più possibile la produzione per appunto mantenere alti i profitti, questo si è scontrato però con il fatto che i mercati su cui è possibile piazzare le varie merci, sono, per numerosi motivi, limitati; per poter vendere le proprie merci a prezzi convenienti si è reso quindi necessario per il capitalista cercare di sbaragliare la concorrenza con ogni mezzo. al fine di assicurarsi un’area di influenza (o meglio di dominio) in cui avere l’esclusiva sulla vendita delle proprie merci, o sulla possibilità di investire capitali (per poter sfruttare il proletariato locale), o in cui poter controllare la produzione di materie prime.
Tutto ciò avveniva fin dal secolo scorso, oggi sono forse leggermente cambiate le metodiche e gli obbiettivi, ma la sostanza rimane immutata: i vari capitali nazionali e i grandi monopoli delle multinazionali si contendono il controllo di determinate aree del pianeta per ricavarsi posizioni di vantaggio. Un esempio recente di questo è stata la guerra del golfo durante la quale gli Usa hanno lucidamente agito in modo tale da riuscire ad ottenere il controllo sulla produzione mondiale di petrolio. In questo modo possono influenzare i prezzi di questa materia prima fondamentale in tutti i processi produttivi e favorire così la propria economia mettendo in vece i bastoni tra le ruote alla concorrenza.
Fino all’incirca al 1985 il campo imperialistico era dominato dai due grandi colossi Usa e Urss e quasi tutto ciò che accadeva sulla faccia del pianeta poteva essere ricondotto alla contesa tra queste due potenze; da quando poi l’URSS, non potendone più sopportare i costi, si è ritirata dal confronto imperialistico, è rimasto campo libero, da un lato agli Stati Uniti, e dall’altro, non potendo comunque questi controllare tutto il mondo, a un nugolo di medie e micro-entità imperialiste che hanno cominciato a combattersi con una ferocia stupefacente. Quali sono infatti le cause effettiva della tragedia bosniaca? nient’altro che la lotta tra una borghesia serbo-bosniaca e un’altra borghesia musulmano-bosniaca per assicurarsi lo sfruttamento delle risorse naturali, prima fra tute il lavoro dei proletari locali, il controllo dei mercati ecc. ecc. e dietro a questi si sono inseriti poi, anche se con poca convinzione, gli interessi dei grandi centri imperialistici.
Paradossalmente chi viene buttato nella mattanza della guerra e chi ne sopporta le conseguenze più pesanti, sono proprio i proletari, coloro che, comunque vadano le cose, saranno sempre le vittime dello sfruttamento dei futuri padroni, serbi o musulmani che siano. La stampa e l’ideologia di regime ci spiegano che dietro le guerre vi è di volta in volta la difesa della democrazia e del diritto internazionale(i sostenitori del quale no esitano a calpestarlo non appena ciò rientri nei loro interessi)e le differenze etniche e religiose, ma a queste palle può credere solo chi è interessato a crederci. Certo non possono dire la verità e cioè che vengono determinate e portate avanti per gli interessi di un ristretto gruppo di potere (le varie fazioni della borghesia) che persegue esclusivamente i propri fini particolari, pena lo smascheramento della facciata ideologica dietro cui nascondono tutte le loro nefandezze e che utilizzano come giustificazione per tutte le sevizie che impongono ai proprio proletariato.
Differenze religiose e etniche, nazionalismo, difesa della libertà sono le parole d’ordine che la borghesia ha sempre utilizzato e continua ad utilizzare per attizzare il fuoco dell’odio e armare le braccia dei proletari per poi mandarli al macello non hanno altra prospettiva di soddisfacimento. Questa eventualità si presenta d’altronde sempre più spesso e, data al situazione di crisi economica globale senza prospettive reali di soluzione, lo scenario che si prepara per gli anni a venire è molto tetro, la borghesia internazionale sarà costretta a sempre più spesso a sfoderare le armi per affermarsi nel gioco della concorrenza tra i vari monopoli finanziari e queste armi le farà imbracciare al proletariato che costituisce da sempre la sua carne da cannone.
I lavoratori invece non hanno alcun interesse nel combattersi l’un l’altro, al contrario il loro interesse sarebbe combattere ovunque la borghesia per la quale sono stati compiuti e si compiono veri e propri genocidi.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022.
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