Essere e tempo – Martin Heidegger – La voce della coscienza.

Essere e tempo - Martin Heidegger
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di Sergio Mauri

C’è un rapporto tra la voce della coscienza, la chiamata, la decisione che non riguarda la coscienza poiché indecidibile e che si può attivare relativamente alla chiamata, al porsi in ascolto della chiamata. Questo plesso in cui si mostra l’azione della coscienza, mostra anche un ulteriore elemento, la colpa, l’esser colpevole, che non va inteso come un modo di colpevolezza morale, ma con la Cura che la colpevolezza dispiega, nella misura in cui prendendosi e avendo Cura, l’Esserci impegna sé stesso, attraverso una decisione, e scopre questo fondamento che lo costituisce ed è rappresentato dalla colpa. Questa colpevolezza, non essendo morale, è un carattere peculiare che costituisce l’Esserci, nel suo fondamento. Il concetto heideggeriano di colpa è formato da colpa e debito insieme, come nella lingua tedesca. La determinazione ontologica della colpa mostra la determinazione ontologica, il fondamento dell’Esserci. Qui saremmo indotti a verificare la vicinanza della colpa con quella del concetto del peccato originale biblico. L’Esserci riceve il peccato originale sin dalla genesi e ha a che fare con la filogenesi ovvero con ciò che riguarda l’Esserci nella sua genericità/generalità. Il concetto di colpa qui mostra chiaramente il “fondamento nullo” che lo chiama Heidegger, nel senso che l’Esserci è costituito da una mancanza, da un non. Nullità non come nullificazione, ma come una mancanza. L’Esserci ha un fondamento, ma al tempo stesso egli non è fondamento, non è fondamento di qualcosa, di sé stesso nella misura in cui egli ha fondamento ed è fondato. Ciò dimostra come l’Esserci, per Heidegger, sia mancanza. Il rapporto tra l’Esserci e il fondamento è in Heidegger lo stesso rapporto tra Esserci ed essere. L’Esserci ha un suo essere e tuttavia l’Esserci non dispone dell’essere che rimane qualcosa che l’Esserci pone tematicamente nel suo senso che però l’Esserci manca, pur avendo una sua costituzione d’essere. In questo modo dobbiamo concepire il rapporto tra l’Esserci e l’esser colpevole. I paragrafi dal 58 in poi fissano l’argomentazione e la sintesi fornitaci (Par. 58). L’Esserci potrebbe essere colpevole solo per il fatto di esistere? Potremmo anche rispondere di sì, ma non nel senso di una “macchina di colpevolezza”, legata a ciò che egli fa o non fa nel corso dell’esistenza perché altrimenti finiremmo sul piano morale o pratico che a Heidegger non interessa. L’essere colpevole è legato all’esistenza non nella declinazione pratica, ma nella chiave ontologica dell’esistere. L’esser colpevole è una sorta di traccia della mancanza che la inserisce all’Esserci. È una mancanza nel proprio fondamento. La mancanza è dunque quella del fondamento, il fondamento di una incompletezza. La incompletezza ontologica deriva dalla finitezza. L’Esserci è un ente finito che guarda sempre avanti in quanto costante progetto innanzi a sé, e questo essere innanzi si schianta contro quest’estrema possibilità. L’essere-per la-morte da un certo punto di vista mostra l’Esserci come un tutto; dall’altro lato l’essere-per la-morte dischiude all’Esserci la propria finitezza e di conseguenza mostra il suo non, il suo esser mancante, la sua nullità. L’esser colpevole, allora, nel senso di esser colpevole verso l’altro può esser determinato come esser fondamento di una deficienza nell’Esserci dell’altro in modo tale che il fondamento stesso si determini nel suo perché come difettivo. L’esser colpevole, da un punto di vista ontologico, non mostra una mancanza nel confronto con gli altri. L’idea di colpa deve essere sciolta dal riferimento al dovere e alla legge. È ancora mancanza di qualcosa. Mancare significa semplicemente non essere presente. Nell’esser colpevole l’Esserci esibisce il proprio fondamento dì. L’idea formale esistenziale di esser colpevole trova la seguente definizione: esser fondamento di un essere che è determinato da un non, cioè esser fondamento di una nullità. Riusciamo a capirla solo se la mettiamo in relazione con la Cura, con quella costituzione ontologica generale che determina il modo d’essere dell’Esserci. E lo possiamo, ancora, capire se la colleghiamo alla gettatezza. L’Esserci è un fondamento non fondante. L’interpretazione si fonda sull’interazione con il progetto gettato. Dunque; l’Esserci è sempre avanti a sé, la gettatezza in qualche modo lo spinge a essere sempre un passo avanti rispetto a sé stesso. Quell’esser proteso sempre in avanti è l’espressione dell’esser possibile. Quelle possibilità sono avanti a sé, quando si realizzano, sono avanti a sé; quindi, l’Esserci è sempre indietro a sé, alle proprie possibilità. È la stessa posizione dell’Esserci vista da due posizioni diverse. L’Esserci non è mai esistente davanti al suo fondamento, ma sempre solo dal proprio fondamento e in quanto proprio fondamento. Quell’esser fondamento è difettivo, che a sua volta è fondamento di un ente ontologicamente difettivo con l’Esserci è. È come se noi fossimo nella condizione in cui per un verso siamo protesi verso la comprensione, l’afferramento di noi stessi come un tutto; e per l’altro verso ci svelassimo come fondamento sempre manchevole. Quando noi pensiamo all’esser gettato, pensiamo a qualcosa che noi siamo e che contemporaneamente siamo stati cioè siamo stati gettati. Se l’Esserci è un progetto che è stato gettato allora il suo progetto viene da altrove, l’Esserci non si getta da sé. Il non che indica una mancanza inerisce proprio al senso esistenziale dell’esser gettato. Essendo se stesso l’Esserci è l’ente gettato in quanto è se stesso, non è in virtù di se stesso è lasciato esser a partire dal fondamento. L’Esserci nell’esser in sé stesso è l’essere del fondamento ed è fondamento di qualcosa ed è fondamento nullo. È nullo proprio in quanto progetto. Tanto nell’essere gettato quanto nel progetto vi è una intrinseca nullità che è il fondamento della possibilità dell’Esserci non autentico. La Cura stessa nella sua essenza è permeata dalla nullità. Perciò la Cura, in quanto essere dell’Esserci, in quanto progetto gettato significa il nullo esser fondamento di una nullità. La Cura è la nullità esistenziale. Nullo però non vuol dire inattivo, privo di presenza, tantomeno inesistente. La colpevolezza, dunque, è quella possibilità che l’essere in quanto fondamento dell’Esserci e che l’Esserci si riserva, attiva nei confronti della chiamata, perché se non ci fosse qualcosa come la generale finitezza dell’Esserci, se non ci fosse qualcosa come la manchevolezza dell’Esserci, nel suo stesso fondamento, non ci sarebbe bisogno, nell’Esserci, di qualcosa come la chiamata che viene dalla coscienza. L’Esserci, infatti, non è un qualcosa di infinito e di increato, è l’opposto. Per tale ragione l’Esserci ha bisogno di porsi in ascolto di “altro”, per cui di mettersi in ascolto della chiamata della coscienza, altrimenti non avrebbe senso di esistere, se l’Esserci non fosse questa manchevolezza originaria, se non fosse un essere della privazione, della manchevolezza. La chiamata è importante per uscire dalla dispersione in cui l’Esserci è immerso all’interno della quotidianità. L’Esserci è quel chiamante che viene richiamato e viene risvegliato. Il richiamo è un richiamare indietro al tempo stesso chiamando innanzi, cioè davanti quella possibilità di assumere quell’ente gettato che l’Esserci è. Ed è anche un richiamare all’indietro, nell’esser gettato per comprenderlo come il nullo fondamento che l’Esserci – esistendo – ha da assumere. La mancanza originaria dell’Esserci si traduce nella quotidianità in una “omissione” da parte dell’Esserci di comprendersi autenticamente. La chiamata della coscienza è una sorta di “divisorio” tra inautenticità  e autenticità, perché se noi non ci poniamo in ascolto della chiamata non potremo mai conseguire il piano dell’autenticità. Io decido (allora) di pormi in ascolto della chiamata che viene dalla coscienza. Che venga prima la chiamata o prima l’angoscia, dipende dalla prospettiva che noi assumiamo. Potremmo dire si tratti di un percorso parallelo. È anche vero che la chiamata mi produce quello spaesamento necessario per togliermi dalla quotidianità. La comprensione della chiamata avviene sulla base dell’ascolto in relazione a una decisione. La comprensione della chiamata è una scelta, riassumibile nell’aver coscienza, quindi dell’essere libero del più proprio essere colpevole, dell’essere libero per il più proprio fondamento. Un fondamento marchiato dall’essere colpevole, dal non, dalla nullità. La comprensione del richiamo della chiamata significa voler avere coscienza, rendersi disponibili alla chiamata. Ma l’Esserci si rende disponibile nella autenticità, nel suo essere più proprio, riconoscendosi. E tuttavia dobbiamo precisare non trattarsi di solipsismo (chiamante, chiamato, ridestato): la chiamata che è dell’Esserci contiene qualcosa che eccede l’Esserci e rimanda all’esterno dell’Esserci e contiene non solo la possibilità per l’Esserci di auto comprendersi, ma anche quella di relazionarsi con l’essere in quanto tale. E qui vediamo il concetto fondamentale dell’evento che avviene nel momento della chiamata, avviene l’evento dell’essere.

Quindi, includere attraverso l’anticipazione della morte nella propria vita, tenendola nel campo ontologico e non in quello metafisico, e questo campo ontologico stesso sta al di qua del limite rappresentato dalla morte, sta nel campo dell’esistenza, sta nello spazio-tempo in cui l’Esserci è ancora vivente. Nel voler prestare ascolto alla chiamata l’Esserci manifesta il suo poter essere, l’esser libero. Diventa quindi una scelta/decisione che implica una responsabilità.

(Par. 59) La coscienza parla sempre di un’azione, nello specifico di uno scuotimento dovuto alla chiamata. La struttura della coscienza, ancora una volta, non in senso morale, ma strettamente ontologico. Presupponiamo che se l’Esserci presta ascolto alla chiamata vuol dire che egli è ancora nel modo dell’inautenticità. Nel silenzio, poiché esso fa ammutolire le chiacchiere dell’impersonale. Il tacito e pronto auto progettarsi, prepara all’angoscia e ciò che chiamiamo decisione che è una modalità eminente dell’apertura dell’Esserci. Con la decisione viene raggiunta la verità dell’Esserci più originaria perché autentica. Grazie alla decisione possiamo passare di livello, cambiare di piano. È una forma di libertà nei confronti di sé stesso e del mondo. Questa decisione non è coglibile dall’Esserci all’interno di un mondo intersoggettivo, ma è un fenomeno che può mettere in atto solo all’interno di sé stesso. La decisione è sempre personale e scaturisce da un Esserci determinato.

La temporalità. La gettatezza mostra il suo carattere temporale e l’abbiamo anche rivisto nella contestualizzazione dell’Esserci davanti a sé e indietro rispetto alle proprie possibilità, anche questa traccia della temporalità.

Arriviamo al III capitolo in cui tratta della temporalità in quanto senso ontologico della Cura.

(Par. 61) La decisione nella sua stessa tendenza a esser più propria non rimanda alla decisione anticipatrice come sua possibilità più propria e autentica? Si. Se la decisione conformemente al suo senso si portasse alla sua autenticità solo quando anziché progettarsi nelle possibilità occasionali, si progettasse nella sua possibilità più estrema precedente ogni essere effettivo dell’Esserci e tale da pervadere ogni poter essere dell’Esserci effettivamente colto? Si. Se la decisione in quanto qualità autentica dell’Esserci raggiungesse la certezza autentica che le è propria solo nell’anticipazione della morte? Si. E se solo nell’anticipazione della morte compresa autenticamente, cioè assunta esistentivamente, ogni anticipatorietà effettiva del decidere? Si.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022.
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