Economia politica dell’Impero. Prezzo e rendita da petrolio.

Geopolitica dell'impero
Geopolitica dell'impero

Nel mondo si estrae ancora sufficiente petrolio da poter fare a meno di quello russo, iraniano o dell’Arabia Saudita o di altri paesi produttori. Il petrolio, tuttavia, non è solo combustibile, è qualcosa di più, ed è proprio per questo che è degno di tante cure ed attenzioni.

La ragione della sua importanza è dovuta al fatto che entra in tutti i cicli della produzione o in quanto combustibile o in quanto materia prima per i suoi derivati. Quindi, le variazioni del suo prezzo si ripercuotono sulla struttura dei costi di produzione di beni e serivizi su scala mondiale. Una volta, una funzione del genere era quella dell’oro in quanto moneta universalmente accettata. Oggi appartiene al petrolio e alla moneta tuttora dominante sui mercati internazionali, il dollaro.

Primo punto da chiarire. Alcuni di noi, ora, tireranno in ballo la questione delle monete alternative al dollaro, dall’euro allo yuan cinese. La questione è che, nel primo caso il tentativo dell’euro di sostituirsi al dollaro è franata in maniera evidente già quando si è fatta fallire, nel 2003, la possibilità di quotare gli scambi in euro invece che in dollari (grazie a Sarkozy, Blair e Berlusconi) e poi ancora dalla crisi dei subprime che si è ritorta contro la nostra moneta, il cui peso è stato ridotto proporzionalmente alla capacità economica complessiva del nostro continente.

L’economia europea è sopravvissuta all’attacco americano, riportando serie ferite e ridimensionando il proprio ruolo, ma pagando un prezzo enorme: il raffreddamento della propria economia. Il cordone sanitario costruito attorno al sistema finanziario europeo, al fine di salvarlo da un possibile tracollo, ha tagliato fuori pezzi importanti di industria e commercio europei che non hanno più avuto a disposizione le risorse per la competizione capitalistica globale. Idem per quanto concerne i consumatori europei che non hanno più avuto gli strumenti per continuare sulla strada del finanziamento del debito crescente anche come sostitutivo di un ridimensionamento del valore-lavoro a livello continentale. C’è da aggiungere che, marxisticamente parlando, il capitalismo ha due vie per contrastare la sempre presente caduta del saggio di profitto: quella del pluslavoro assoluto e quella del pluslavoro relativo. Nel primo caso si aumentano le ore di lavoro, quindi lo sfruttamento. Nel secondo si agisce, abbassandolo, sul pluslavoro relativo, cioè su quella parte di lavoro necessario a riprodurre la forza lavoro operaia.

Come si fa? Consumando meno, tenendo i prezzi un pò più alti rispetto alla capacità di spesa del salario. È quello che sta succedendo ora. C’è ancora da aggiungere che questo è il metodo che è stato seguito con successo soprattutto in Germania e nord Europa. Quello dell’aumento diretto dello sfruttamento invece è tipico dell’Italia, dove si assiste alla caduta dei salari al cospetto di un aumento a dismisura dell’orario di lavoro, per chi ce l’ha.

Prima di proseguire delineando il rapporto tra dollaro e petrolio dobbiamo aggiungere che, l’egemonia della valuta americana non è ancora al tramonto, ma certamente in una fase di profonda ristrutturazione. La minaccia più seria potrebbe essere proprio quella portata dallo yuan cinese. Tuttavia, non ci siamo ancora, visto che nonostante la Cina abbia ridimensionato la propria presenza nel debito pubblico statunitense, rappresenta ancor oggi il miglior puntello all’economia americana. Riconoscendo, quindi, la forza e l’importanza del proprio vero concorrente, ma anche usandone a proprio tornaconto la forza. La Cina, inoltre, non è ancora in grado di sostituirsi all’egemonia globale americana, né in termini finanziari, né tantomeno in termini culturali.

Possiamo procedere. Se vogliamo spiegare la relazione strettissima fra dollaro e petrolio, questa può essere compresa osservando che chiunque estragga petrolio in qualunque angolo del mondo, non ne calcola il prezzo utilizzando la moneta del luogo dove l’estrazione avviene, ma il dollaro. Prezzi del petrolio e quotazioni del dollaro si influenzano reciprocamente in maniera costante e sistematica. A loro volta influenzano il processo di formazione dei prezzi di tutte le merci, le parità monetarie internazionali e, quindi, il saggio di interesse medio che, a sua volta, determina i movimenti di capitali finanziari su scala mondiale.

Supponiamo che il prezzo del petrolio salga con forza, come avvenne – ad esempio – con il primo shock petrolifero (1973-74).

Il prezzo aumentato costringerà tutti gli importatori di petrolio a incrementare sul mercato finanziario la richiesta di dollari. L’incremento della domanda di dollari determina una tendenza al rialzo del tasso di cambio del dollaro. Per gli americani è come se sul mercato mondiale si concentrasse una domanda di merci da loro prodotte senza che ciò sia realmente accaduto.

La loro moneta esprime così dei rapporti di forza con le altre monete, non determinati dai reali rapporti di scambio fra le loro merci e quelle degli altri paesi, ma dal solo fatto che la loro moneta funziona come moneta universale. Le leggi del mercato capitalista ci dicono anche che se il valore di una moneta cresce, aumenta anche il prezzo di quella moneta e il prezzo della moneta, altro non è che il saggio di interesse. Con un prezzo del petrolio elevato la banca centrale americana vedrà anche maturare la tendenza all’incremento del saggio di sconto e di conseguenza, il costo di gestione del suo debito. Al tempo stesso potrà giovarsi di un afflusso di capitali proveniente dall’estero, grazie al più alto tasso di interesse. In caso di ribasso del prezzo del petrolio, accade esattamente l’opposto e i vantaggi e gli svantaggi si invertono.

Allora, la regola principe da tenere presente quando si parla di sistema imperiale, di imperialismo e capitalismo e degli interessi nazionali ed internazionali che mettono in moto, può essere riassunta in una domanda: qual è la posizione di un dato paese nella catena imperialistica del valore?

Fin qui le regole e gli esempi esplicativi di valore universale. Ma cosa possiamo dire della situazione attuale, entrando nello specifico dell’articolazione dei poteri globali di questi ultimi mesi ed anni?

La prima cosa che possiamo dire è che la prima potenza imperialistica mondiale, gli Stati Uniti, stanno ristrutturando il proprio potere tenendo sempre come loro obiettivo la proiezione globale, ponendo anche agli altri, maggiori attori geopolitici di prendere delle contromisure o di attuare dei compromessi in risposta a tale fase di ristrutturazione.

I paesi produttori di petrolio della penisola arabica, ancorché alleati degli americani e loro soci in affari, si sono ritagliati uno spazio politico maggiore ed hanno intenzione di giocare un ruolo sempre più importante in futuro, legando cultura, religione e forti interessi economici, in una sintesi politica espansiva, già ampiamente in atto. Le loro incursioni finanziarie in Euro-America piuttosto che i loro finanziamenti all’ISIS lo dimostrano ampiamente. Questo modus operandi è deciso di concerto e attraverso compromessi a geometria variabile, con il fratello-nemico americano, sulla base di interessi geopolitici comuni, ma da tenere sotto osservazione, visto che, in un futuro non molto lontano, gli arabi della penisola potrebbero non avere più bisogno dell’amico americano per muoversi nel mondo. La convergenza di interessi fra mondo arabo affluente ed impero americano è giocata in veste anticinese prima di tutto, essendo la Russia una potenza regionale, ma non globale. Solo la Cina potrebbe giocare un ruolo geopolitico alternativo a quello americano, mentre sembra che l’Europa non ne abbia né la forza, né la voglia, riscoprendo anzi i suoi fantasmi del passato (innanzitutto la paura degli ex-colonizzati) che ne determinano un ruolo speculare, ma subalterno, a quello americano.

Vediamo di assimilare alcune lezioni della storia recente. Nel 1973-74, la crisi economica mondiale, una tendenza permanente del capitalismo, coglieva gli USA in difficoltà. Tuttavia, all’epoca essi potevano ancora vantare il primato in moltissime produzioni industriali e, in particolare, nel settore dell’alta tecnologia. Al tempo stesso facevano i conti con un’inflazione superiore al 10%, ma avevano un bilancio federale quasi in pareggio. Inoltre, non registravano i gaps di produttività nei confronti di alleati o avversari politici, come in parte succede oggi. Forti di questo, videro nell’aumento del prezzo del petrolio il mezzo con cui assicurarsi la preminenza globale e la favorirono in tutti i modi. Il prezzo quadruplicato del petrolio colpiva anche il loro apparato produttivo, ma comunque in misura inferiore rispetto a Giappone, Germania e Italia, completamente privi di petrolio. Inoltre, aumentando il valore del dollaro, potevano agevolmente competere sui mercati finanziari internazionali, assicurando più alti tassi d’interesse. Grazie a ciò, enormi quantità di capitale finanziario si riversarono nelle casse della FED. Da ciò maturò l’idea di una ristrutturazione indirizzata essenzialmente verso due obiettivi: la trasformazione dell’economia per basarla principalmente sulla gestione dei flussi finanziari mondiali e la costruzione di un potente esercito che fosse in grado di ridurre il mondo agli interessi statunitensi. In più, si destinava una quota degli investimenti verso il settore dell’alta tecnologia in modo da potervi mantenere una supremazia. Con il secondo shock petrolifero del 1979, che vide il raddoppio del prezzo del petrolio di allora, il progetto prendeva definitivamente corpo e si concretizzava nel più vasto e profondo riarmo che fosse mai stato concepito. Il tutto mentre si espandeva a dismisura il settore dei servizi e la Borsa schizzava verso l’alto.

I concorrenti e le loro economie soffrirono, invece, oltre al rialzo del prezzo del petrolio, dell’esclusione dal flusso finanziario dei petrodollari che rendeva difficile il finanziamento dei processi di ristrutturazione (introduzione della microelettronica) in atto.

In quegli anni europei e giapponesi, coscienti dell’impossibilità di competere sul piano finanziario con gli americani, hanno indirizzato i loro sforzi al recupero di produttività. Quindi, compressione salariale, debito interno e introduzione della microelettronica, hanno permesso ad europei e giapponesi di reggere il confronto. Negli Stati Uniti, al contrario, la politica di finanziarizzazione ha portato ad una de-industrializzazione, facendo perdere al paese tutti i primati industriali acquisiti in passato, settore dell’alta tecnologia incluso. Ma i flussi finanziari in entrata negli Stati Uniti provenivano anche da Europa e Giappone, attratti dalle opportunità speculative. Sono gli anni in cui inizia anche l’inserimento della Cina nei meccanismi economici internazionali. Un inserimento che porterà la potenza asiatica a diventare il primo creditore degli Stati Uniti.

In seguito l’alto prezzo del petrolio fece si che le potenze concorrenti impostassero delle politiche focalizzate sul risparmio energetico e sulle fonti alternative. Il prezzo del petrolio iniziò lentamente a calare. A questa diminuzione si affiancò un incremento del deficit della bilancia commerciale e una riduzione del prezzo del dollaro che in concomitanza alla prima guerra del Golfo aveva perso più del 30% del proprio valore. Il mondo industriale statunitense inizia a chiedere la riduzione dei tassi d’interesse, senza la quale non è possibile indirizzare il flusso finanziario verso il mondo della creazione di beni, verso il mondo della produzione.

La successiva riunificazione tedesca, avvenuta in un momento di debacle del sistema americano, aggiunge – assieme al progetto europeo – nuove preoccupazioni alla classe dirigente d’oltreoceano. È il periodo in cui Bush senior tenta di rivedere, senza un grande successo, la politica fiscale, in contraddizione con la precedente ondata reganiana.

Siamo allora nel periodo della prima guerra del Golfo. Già a partire dalla seconda metà del 1990, la contraddizione fra la necessità di rilancio dell’industria e quella di finanziare debito pubblico e bilancia dei pagamenti è un rebus senza soluzione. L’unificazione tedesca rappresenta una ulteriore complicazione, poiché con i massicci investimenti della Germania verso est, si determina uno spostamento dei flussi finanziari verso il Marco, lasciando scoperto il dollaro.

L’emissione di BOT da parte della FED nel giugno 1990 ha uno scarso successo, mentre quella di settembre ha un successo migliore, ma solo grazie all’alto tasso promesso: l’8,87%.

Da questo quadro si comprende che l’economia americana all’inizio degli anni ’90 versava in condizioni critiche. Per uscirne dovevano verificarsi delle situazioni fra loro in contraddizione: mantenimento di alti tassi d’interesse per il finanziamento del debito pubblico; tassi d’interesse bassi per riassestare l’apparato industriale.

L’unica possibilità di conciliare queste due esigenze fra loro in contrasto fu data da un livello del prezzo del petrolio per il quale i tassi d’interesse non sarebbero saliti e, nello stesso tempo, i flussi di capitale finanziario utili a finanziare il debito pubblico, provenienti dall’area del Golfo, si potessero incrementare in modo da sostituire parzialmente quelli nippo-tedeschi in fuga verso l’est. In seguito sarebbe stata la Cina ad essere la stampella dell’economia americana in questo senso. Ed ancora oggi lo è, anche se di meno.

Piccola parentesi sulla Cina contemporanea. Questa oggi tenta di muoversi per l’internazionalizzazione del renminbi, spingendo per l’inserimento nel fondo Diritti Speciali di Prelievo del FMI. Inoltre, altro passo importante per inserire il proprio sistema borsistico (Hong Kong, Shenzhen, Shanghai) nell’indice delle Borse dei Mercati Emergenti. Peccato che il sistema finanziario e delle aziende pubbliche o private cinesi sia il più opaco del pianeta. Pertanto la strada è tutta in salita per il gigante asiatico. Chiusa la parentesi.

Quindi, per prezzi del petrolio prossimi ai reali rapporti tra domanda e offerta, il cambio del dollaro avrebbe subito ulteriori ribassi e di conseguenza per impedire il blocco totale del movimento dei capitali verso il dollaro, si sarebbe dovuto innalzare il tasso di sconto reale. In più, visti i livelli delle importazioni dell’epoca, si sarebbe corso il rischio di una ripresa inflazionistica.

Per prezzi del petrolio troppo alti, si sarebbe certamente riusciti a finanziare il debito pubblico, ma dando così un colpo mortale all’industria.

Nel periodo della 1^ Guerra del Golfo, a differenza dello shock petrolifero del ’73-74, l’impatto di un aumento del prezzo del petrolio verso i paesi industrializzati concorrenti non avrebbe dato gli stessi vantaggi. La loro diminuita dipendenza dal petrolio (Italia esclusa), la migliorata produttività media e la relativa diminuzione dei costi energetici, li rendeva meno esposti al prezzo del greggio. Perciò; se l’obiettivo era quello di mantenere il prezzo del petrolio entro una fascia delimitata, si sarebbe potuto creare un mercato in cui operare, per gli USA, da posizioni di forza, indipendentemente dai reali rapporti di competitività internazionali, è chiaro che ne avrebbe giovato sia il debito che l’apparato produttivo.

L’iraq, infatti, all’epoca aveva il torto di voler ricostruire il paese distrutto dalla guerra per conto dell’Occidente e di voler vendere un maggiore contingente di greggio sul mercato. Cosa che gli USA non potevano permettere. Attraverso gli esempi del passato e le regole sempre presenti ed agenti nel mondo dell’economia, possiamo capire meglio anche il presente.

La situazione attuale ci presenta un quadro ancora diverso, in cui vediamo la caduta del prezzo del petrolio e la sostituzione, negli USA, di una parte del greggio proprio con lo shale gas e oil. La caduta del prezzo ed il suo permanere in basso permettono agli USA di ristrutturarsi industrialmente, riportando a casa almeno una parte dell’industria, dotandosi così di nuovi ed adeguati strumenti per la competizione internazionale. È in atto una ristrutturazione della mappa mondiale dei poteri reali, limitando il ruolo della Cina e rafforzando i confini dell’area occidentale, in modo che possono essere difesi. La mappa dei poteri è in via di ridefinizione anche all’interno dell’Occidente, dove la leva del potere si dovrà assestare in maniera chiara e forte dalla parte delle multinazionali e dei governi a spese delle classi subalterne e dei consumatori nel loro complesso.

La crisi finanziaria del 2008 è caduta a fagiolo, anche ammettendo non ci fosse alcun piano prestabilito. Come si sa, da cosa nasce cosa. Quella crisi ha permesso di frenare l’espansione della Cina, ha ridimensionato l’Europa, preparando un’unificazione – di fatto – del mercato euro – americano e permettendo, un rientro dei capitali d’oltreoceano sul vecchio continente.

Si usa molto parlare dell’attacco sferrato dagli americani attraverso gli amici sauditi, nei confronti del Venezuela, Russia e Iran. Tutavia, non sono gli unici a pagare. Il motivo basilare della caduta del prezzo del petrolio, tuttavia, non risiede in un complotto imperialista, bensì nel consistente rallentamento dell’Asia e della Cina in particolare. Pagano, quesi sbalzi di prezzo, anche quei paesi produttori che sono schierati con gli americani. Ma una parte dell’obiettivo è chiaro: permettere all’Occidente di ripartire e riguadagnare posizioni forti, grazie ai bassi costi energetici.

Apprezzare il dollaro quel tanto che basta per sostenere il debito, far ripartire l’industria, riprendersi l’Europa e quella parte di Asia non sotto il controllo della Cina.

La lettura fatta dai molti, anche a sinistra, che in maniera manichea dipingono un quadro irreale del tipo buoni/cattivi non regge. Le ragioni dello scontro con la Russia o delle tensioni con la Cina o l’Iran, la questione islamista e l’ISIS si devono leggere attraverso i dispositivi di funzionamento del sistema in cui siamo immersi, e lasciare da parte le categorie morali così tanto in voga, ma che coprono i giochi reali. Peraltro, non vi è uno dei paesi citati ed in rotta con l’Occidente che non vi faccia affari assieme e non corra al cospetto dell’avversario quando si tratti di impostare altri affari. In un certo senso questi anni sono stati il capolavoro dell’Occidente che sta ridisegnando il proprio potere internazionale a guida americana, sia all’esterno nel rapporto con gli altri Stati, che all’interno modificando la struttura di classe all’interno dei propri confini imperiali, in modo da spostare con forza il baricentro del potere – come già osservato – dal lavoro e dai consumatori al capitale e al grande business.

Nell’area mediorientale vi sono poi ulteriori dati da analizzare che ci faranno capire esserci una convergenza di interessi fra l’Occidente ed una parte dei paesi produttori di petrolio. Innanzitutto: quale parte? Quella dei paesi produttori che sono anche paesi creditori, cioè il gruppo ristretto dei paesi aderenti al Consiglio del Golfo. Questi paesi, poco interessati a dotarsi di un proprio apparato produttivo in grado di slegarsi dalla dipendenza verso l’estero, hanno investito le loro eccedenze prima negli USA e poi in altri lidi ospitali dell’Occidente. È notoria la loro presenza in forza sul suolo europeo e giapponese, nonché in Africa ed Asia.

Questi paesi hanno sempre ottimizzato le proprie rendite in base ad una attenta ripartizione fra investimenti immobiliari, infrastrutturali o finanziari all’estero e vendita del petrolio, a patto che il prezzo del greggio oscillasse entro una certa banda di prezzo. Questo è il loro punto di convergenza con gli interessi statunitensi che continua ancor oggi, anche con un maggiore peso rappresentato dai paesi del Golfo, un peso tale che ora esigono di sedersi al tavolo da pari a pari con gli americani.

Se vogliamo analizzare, per un attimo la situazione dell’Iran che ora stà portando a termine un riavvicinamento con gli USA, ci rendiamo subito conto che, a parte i trascorsi politici che ne hanno segnato il rapporto controverso, non parliamo affatto di un nemico “naturale” degli USA. Intanto l’Iran è un paese debitore, diversamente della monarchie del Golfo, ed è al tempo stesso un paese produttore di petrolio. In virtù di questa sola ragione l’Iran, che sta trattando per una completa apertura economica con l’Occidente, non può avere alcun interesse a spezzare il processo di formazione della rendita che, come abbiamo visto, non è fatta solo di estrazione di petrolio, ma anche dalla combinazione dei suoi prezzi con il movimento complessivo del capitale finanziario su scala planetaria. L’ottimizzazione della rendita complessiva non è in ragione direttamente proporzionale al prezzo del petrolio, ma è data per una serie di prezzi per la quale vengono soddisfatte condizioni di volta in volta contradditorie fra loro: tassi d’interesse, parità di cambio, produttività industriale e così via. Pertanto, parliamo di condizioni mutevoli.

Lo scontro, quindi, non è mai fra chi vuol pagare poco il petrolio e chi, invece, vuole prezzi più alti. Lo scontro, cioè, non è mai semplicemente per il petrolio, in quanto materia prima e combustibile, ma per il petrolio in quanto elemento determinante nel processo di formazione della rendita e della sua ripartizione. Quando l’Iraq rivendicava prezzi alti di vendita del greggio, come altri oggi rivendicano (o rivendicherebbero…) il rialzo del proprio greggio (Venezuela, Russia, Iran) ciò non favorisce di certo i paesi arabi debitori e non produttori, ma le grandi compagnie statunitensi o i centri finanziari interessati ad un regime di tassi di interessi sul dollaro più elevati. Tantomeno favoriscono le masse arabe, africane o sudamericane.

Bibliografia: Greg Muttitt, Fuel on the Fire. Oli and politics on occupied Iraq, Random House.

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