Taranto, provincia di Mumbai.

Ilva di Taranto
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di Sergio Mauri

Il bubbone morti per cancro a causa dell’Ilva è scoppiato. I nostri mass-media avranno così la possibilità di raccontare anche quello che succede a casa nostra e non solo nella Cina capital-comunista o nei paesi Brics, come amano fare, con vero spirito di parziale complicità. I nostri giornalisti, dovrebbero andare in giro per i posti di lavoro e le aree geografiche dove questi impianti sono insediati ed intervistare i lavoratori, la popolazione, facendoli parlare, esprimere chiaramente riguardo le condizioni di lavoro e residenziali in cui vivono.

Il settore dell’acciaio in Italia è stato molto spesso definito come obsoleto. Strano, visto che l’impianto di Taranto è di una compagnia che è sempre stata presentata come all’avanguardia sul piano tecnologico, una compagnia che vanta il famoso “know how” da molti decenni ormai. Effettivamente, in parte per capacità produttive proprie, in parte per il sostegno dello Stato (cioè delle nostre tasse) il comparto ha segnato dei buoni profitti. Gli indicatori del settore parlano chiaro: i profitti ci sono! La produttività è alta, ottenuta non solo intensivamente, ma anche con la dilatazione fuori misura della giornata di lavoro. Il giochino di definire questo settore come obsoleto e per questo di non parlarne è funzionale proprio a tenere nascoste le cose che succedono all’interno di queste “galere operaie” e a deviare l’attenzione da chi si fa i soldi sulla pelle altrui.

Dopo i bubboni esplosi, bisogna pur dire pane al pane: questo modo di produrre non funziona. Non si deve produrre attraverso la concentrazione dei mezzi di produzione in realtà separate, chiamate fabbriche (altiforni, catene o isole di montaggio che siano…) per l’obiettivo del profitto. Bisogna anche avere il coraggio di dire che il profitto non genera lavoro, ma è generato dal lavoro. Bisogna ricordare che questi operai non sono pagati con il o per il frutto del loro lavoro, ma semplicemente per il valore che essi hanno sul mercato del lavoro, merce tra le merci.

E che il loro valore è sceso negli ultimi anni, anche a causa del fatto che la valorizzazione dei capitali è stata sempre più difficile; grazie al fatto che il mercato del lavoro si è allargato a dismisura, è diventato internazionale inserendo in esso milioni di lavoratori che per la prima volta dall’Est o dal Sud del mondo vi entrano, abbassando il valore generale del proprio prezzo (questa è la legge della domanda e dell’offerta).

In questa spiacevole telenovela, in cui ora la questione ambientale (sempre esistita) è una scusa per chiudere tutto e farla pagare ai contribuenti, abbiamo potuto notare l’assenza di voci di personalità del mondo culturale o politico, per una sorta di cinica decisione al silenzio. Non abbiamo visto il caro leader del Partito Democratico che, 4 anni fa, durante l’inventata “emergenza rumeni”, si faceva vedere ad ogni occasione in TV. No, qui nulla di tutto questo. E nemmeno l’altro leader, impegnato in una poco seria querelle con il sedicente rottamatore, abbiamo visto. Qui solo silenzio. Nessuno di questi uomini d’onore risponderà per aver lasciato dilagare lo scempio. Nemmeno potrebbero, sono dei travet ben pagati, tutto qui.

Sarebbe tempo di ridiscutere questo modo di produrre e di rimettere in evidenza quello prioritario per i bisogni, in realtà produttive orizzontali, dove siano ridotte le ore di lavoro, i mezzi tecnici non siano pesanti, l’uomo e la donna ne abbiano il controllo. E’ ora di ridiscutere la cultura imposta per decenni, fatta di arrivismo sulle spalle degli altri, di consumismo sfrenato, di modelli di successo distorti proposti a solo beneficio di pochi.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger e ideatore e-learning. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2014 e con Historica Edizioni nel 2022.
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