Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del populismo!

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Sono tempi complessi per l’idea di Europa unita: non è forse vero che, come sostengono i critici di quell’idea, un’unione fra deboli e forti non fa che avvantaggiare i più forti? Le diseguaglianze economiche tra i paesi che compongono la stessa, la moneta unica percepita come veicolo di impoverimento generalizzato, lo strapotere decisionale di alcuni paesi o “maggiori azionisti” che dir si voglia, la riluttanza dei paesi europei dell’ex blocco socialista a seguire le “regole comuni”, soprattutto in tema di immigrazione e, non ultima, la Brexit, hanno conclamato una ideologia di massa fondata sulla disillusione e lo scetticismo rispetto all’europeismo. I dubbiosi e i disillusi vengono bollati con l’infamante appellativo di populisti!

È il caso di capire perché la classe dirigente europea aveva deciso di unirsi.

L’idea di un’Europa unita nasce da lontano ed ha il suo punto di svolta nella tragedia della Seconda guerra mondiale. È da lì che prende forma e si riempie di contenuti l’idea stessa di un’unità europea. Ad onor del vero, nella storia del continente non è la prima volta che si sia tentata la strada dell’unità, sebbene con mezzi non pacifici. Anche senza riandare all’antica Roma (impero non solamente europeo) o a Carlo Magno, ci basterebbe ricordare Napoleone Bonaparte, mentre lo stesso Hitler si proponeva un dominio della razza superiore germanica sul continente europeo.

Possiamo affermare che, in un certo senso, con la Seconda guerra mondiale l’Europa andava salvata da sé stessa visto che lo scontro tra le varie potenze continentali, dopo aver deflagrato a scala planetaria, stava per cancellare la civiltà europea stessa e le sue conquiste secolari.

Come sosteneva Spinelli nel Manifesto di Ventotene del 1941, per liberarsi del dominio hitleriano, ma soprattutto per scongiurare nuove ed ulteriori possibili contrapposizioni fatali, si è ritenuta necessaria l’abolizione della sovranità dei singoli Stati nazionali affinché da un nuovo Stato che li contenesse tutti, si potesse generare l’unità federale degli altri. Questo nuovo Stato europeo, continentale, doveva avere dei punti di riferimento politici, economici e giuridici. Quali? Secondo il giurista australiano Ronald William Mackay, lo schema di riferimento doveva strutturarsi nei seguenti punti: nella libertà politica ed economica innanzitutto e perciò nel suffragio universale col quale eleggere un governo rappresentativo che potesse essere il volàno di una Federazione stabile e democratica, immune da attacchi o tendenze alla sopraffazione anche interna. Poi, in un altro punto, quello economico, che consisteva nel libero mercato. Infine, sempre secondo Mackay, come sottolineato nel suo libro “Federal Europe” pubblicato a Londra nel 1940, da un punto di vista giuridico è proprio nella Federazione, in un’unione di diversi con margini di autonomia, che si trova la soluzione al problema della sussistenza di molteplici voci ed interessi, spesso contrastanti, che caratterizzano l’Europa.

Tuttavia, tra il sogno e la realtà dovrebbe situarsi la politica, come nobile arte del compromesso e del possibile. Come ci ricorda Thomas Mann col suo radiomessaggio da New York nel 1943, in piena guerra, l’Europa, per evitare di autodistruggersi ancora, dovrà elaborare e fare propri i valori etici di una comune legge della ragione e della moralità che sia il punto di riferimento dell’azione politica. Un’azione che sia in grado di costruire la nuova Europa su basi di uguaglianza e di indipendenza spirituale, che siano in grado di collegarsi alla cultura tradizionale e ai suoi più alti valori.

La tragedia della Seconda guerra mondiale che tanto ha segnato e in qualche modo continua a segnare i nostri animi e la nostra memoria è anche il tema della prefazione di Giovanni Spadolini al libro di Romano Ugolini, Storia dell’Europa come nazione, del 1979. Torna, nel testo spadoliniano, il tema della devastazione hitleriana come causa determinante che ha portato all’affermazione e sviluppo di un’idea di Europa unita. In Spadolini, tuttavia, l’Europa e i suoi componenti sono visti come portatori di una civiltà comune e non solo rivolta verso l’interno, ma anche verso il resto del mondo.

Tuttavia, io credo che i problemi che sono emersi in questi ultimi anni in Europa siano il risultato di una serie di nodi politici irrisolti che sono ancora attuali. Vediamoli.

Le prime cose che vengono criticate dai populisti sono l’estinzione della sovranità di ogni singolo Stato aderente, che significa anche impossibilità a battere moneta e a decidere del proprio debito pubblico e del pareggio di bilancio, e il libero mercato, nel senso del rapporto tra Stato e mercato sia nel campo degli investimenti pubblici o privati che delle regole sulla produzione e sul commercio di beni e servizi sotto il profilo della concorrenza.

La crisi di consenso dell’idea europeista è fondata?

Purtroppo si, anche se le risposte a questa crisi possono sembrarci esecrabili e spesso lo sono.

Intanto osservo che, nei quattro testi letti, sono assenti alcune tematiche che vi dovrebbero essere incluse. Ad esempio non è chiaramente rintracciabile la necessità di un’unione continentale se non per tenere la Germania sotto controllo. Tuttavia, si riesce ad intravedere la differenza tra l’europeismo di allora e quello di oggi: al tempo si trattava di salvare l’Europa da sé stessa; oggi di salvarla dalla china su cui stà scivolando. In questi anni i problemi sono stati eminentemente economici e potenzialmente esplosivi. Si tratta di rapporti reciproci tra Stati che hanno scelto, per rimanere a galla in un mondo globalizzato dove la concorrenza mercantile e le necessità di autoconservazione della finanza sono irrinunciabili, di stare assieme per fare massa critica e contare rispetto a colossi continentali (Stati Uniti, Cina, India) e a potenze regionali in ascesa (Turchia, Russia, Brasile…).

Non c’è traccia di alcuni fatti essenziali: per esempio che l’Europa, alla fine della Seconda guerra mondiale, nelle sue singole nazioni era ancora fautrice del colonialismo e dell’imperialismo, temi per noi forse discutibili, ma non di sicuro per i popoli che vi erano sottomessi. Subito dopo la fine della guerra, si innalza la cortina di ferro per salvare il capitalismo da un campo socialista che bussa alle nostre porte. Oggi quel campo, sembra un paradosso ma non lo è, è più lontano geograficamente, ma presente nella nostra economia laddove la Cina (erede di quel campo) investe in settori anche strategici, a casa nostra. La globalizzazione è riuscita laddove nemmeno l’Unione del nostro continente è riuscita: nell’aver non solo reso il mondo più giusto nella ripartizione dei redditi e quindi nella composizione sociale, soprattutto in Asia, ma anche nell’apporto di capitali che servono a puntellare un’economia, in particolare quella dei paesi dell’Europa meridionale che, ci è stato detto dai fratelli europei più virtuosi, è inefficiente, esposta alla corruzione e piena di debiti.

Inoltre, si intravede qualche mancanza anche nel programma politico di un’europeista di prima grandezza come Spinelli. Questo programma possedeva tre gambe: quella della politica estera, quella della difesa, e quella della moneta, da esercitare in comune, chiaramente.

Sfortunatamente, questa politica mancava della gamba sociale ed infatti ne vediamo le conseguenze. Il mercato (cioè il capitalismo) rimane l’orizzonte di quel programma, eppure come non possiamo confrontarci col fatto che il capitalismo è sempre stato fonte di squilibri, spesso veramente dirompenti e rivoluzionari, ed architrave del colonialismo dell’epoca, da cui traeva, attraverso il furto di risorse nel mondo meno sviluppato, il proprio consenso in casa, per mezzo di una oculata redistribuzione di quelle risorse. Ma qui il discorso si deve necessariamente ampliare, perché i limiti e le contraddizioni dirompenti dell’Europa di oggi nascono da lontano.

In realtà quando l’Unione Europea nasce, essa non nasce sull’onda degli ideali dei confinati a Ventotene. Nasce come un pezzo della Guerra Fredda e della spaccatura dell’Europa. Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con la sua Dichiarazione di Parigi del 6 maggio del 1950, stende la mano alla Germania, nemico di ieri, perché gli americani gli dicono che hanno assoluto bisogno del riarmo tedesco. Siccome il riarmo della Germania non si può fare se non nel quadro di un’alleanza con la Francia, questo processo viene messo in moto. Ma questa è altra cosa rispetto a quello che avrebbe dovuto essere. Finita una guerra, se ne imposta e se ne teme un’altra. Non a caso la SPD tedesco occidentale all’epoca era contro l’Unione Europea perché capì che questo avrebbe approfondito la spaccatura della Germania rendendo difficile il superamento dei blocchi, la distensione e la riunificazione del paese. Lo stesso Stalin, come mirabilmente documentato nel libro di Wilfried Loth, Figliastri di Stalin, della Mondadori, era contrario alla divisione della Germania e avrebbe preferito, per questioni di interesse fondamentalmente economico e geopolitico una Germania neutrale.

L’Unione Europea fu inizialmente un atto di guerra e la retorica della pace è venuta dopo perché è stata opera delle Democrazie Cristiane filo-atlantiche francese, tedesca, italiana. I primi atti dell’integrazione europea sono fortemente segnati dalla Guerra Fredda. Infatti la prima risoluzione in cui si parla dell’Unione Europea è del parlamento americano su sollecitazione di Foster Dulles che poi è l’uomo della Guerra Fredda.

Gli stati europei uscirono dalla guerra delegittimati, per una ragione o per l’altra, e cercarono una nuova legittimazione in un quadro più grande. Ma la spinta determinante venne dagli USA che avevano bisogno di un caposaldo nell’Europa occidentale. È stata costituita una comunità atlantica più che europea e scarsi sono i segni di un’autonomia dagli USA. Sul piano della concorrenza commerciale l’autonomia arriva molto tardi e non c’è un episodio di rottura o contrasto con Washington.

Chi semina vento raccoglie tempesta. Dai tempi dei tempi.

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