Scrivere di non scrivere del mercato dell’arte.

Art market
Art market

di Sergio Mauri

[Traduco dall’inglese questo articolo di Adam Lindemann.]

Non pubblicato dal New York Observer.

La stagione delle aste è di nuovo innanzi a noi, ed è tempo di scrivere sulle grosse quantità di arte in vendita e mi chiedo quanto la gente sarà disposta a pagare per queste cose. Sono semplicemente sopraffatto dalla quantità di preziose opere d’arte che hanno necessità di essere vendute (anche se gran parte di esse sono già state pre-vendute attraverso garanzie di terze parti). Si aggiunga tutto ciò ad una disastrosa inondazione al quartiere di Chelsea e la mia mente torna di nuovo ad un recente articolo della rivista TAR, in cui la scrittrice Sarah Thornton elenca 10 motivi per cui lei non scriverà più sul mercato dell’arte. Dal momento che sono uno scettico consumato, mi sono chiesto se anch’io dovessi smettere di scrivere su di esso e perché, se non scrivere su di esso sia davvero una buona idea e perché non ci avessi pensato io. Qui ci sono i suoi 10 punti, abbastanza convincenti da farmi partecipare a questo suo impegno di non scrivere di nuovo sul mercato dell’arte. Ma prima cerchiamo di controllare due volte ciascun punto, giusto per essere sicuri di aver capito bene.

1. Si dà troppa esposizione agli artisti che ottengono i prezzi più alti.

Parlando di prezzi spuntati alle aste, negli ultimi 10 anni, essi hanno raggiunto, in alcuni casi, livelli impressionanti, in altri, hanno avuto forti oscillazioni; tuttavia tutto ciò è stato emozionante da osservare. Naturalmente, coloro che amano l’arte non devono scrivere solo di artisti che fanno grandi numeri a livello di vendita, perché dovrebbero incoraggiare una più ampia visione delle cose. E’ deprimente pensare che Picasso da solo rappresenti il 25% del mercato dell’arte del XX° secolo, mentre Andy Warhol ne rappresenta il 20% e la quota raggiunta da Damien Hirst è del 15%. Mi chiedo che cosa succederebbe se si scrivesse principalmente su artisti che vendono quasi nulla. Questo è quello che faremo, evitare i record e scrivere solo di quelle opere che non vendono o conosciute grazie al loro acquisto. Geniale!

2. Si consente ai manipolatori di pubblicizzare gli artisti i cui prezzi vengono battuti in asta.

L’idea che scrivendo si stiano aiutando i malvagi cartelli finanziari è un pò esagerata. Non vi è alcuna carenza di investitori, speculatori e loschi intermediari che cerchino di trarre profitto dalle mode artistiche alimentandone il picco a loro vantaggio. Ha ragione credo e perché dovrei aiutarli se non sono parte della truffa? (oh, si, che lo sono!) In ogni stagione vediamo poche cose vendute per pochi spiccioli ma non dimentichiamo che altre cose esplodono. Non credo che i prezzi dell’arte siano diversi da quelli delle azioni. Pensi davvero che Facebook valga di più di McDonald? Ci sono cartelli in ogni attività ma noi viviamo in un mondo in cui ha senso fare il proprio lavoro, il non rimettersi ad altri per farvi le vostre opinioni e il non fare affidamento sugli altri per determinare i vostri gusti o il vostro sistema di prezzi. Quando esploderà la prossima bolla tecnologica, mangeremo ancora cheesburger e la buona arte manterrà il suo valore. Il resto è storia.

3. Non sembra mai portare ad una regolamentazione.

Chi ha bisogno di regolamentare un piccolo mercato dove non esistono due elementi uguali? Le persone che non capiscono il collezionismo, ecco chi. Credetemi, mamme e gente innocente, non comprate arte. Dimenticate la teoria del complotto, non c’è vittima qui. Mi piacerebbe avere una ristretta regolamentazione della pesca al fine di proteggere gli oceani e forse regolamentare il consumo assurdo ed irresponsabile di energia. Prendo atto che ci sono molte cose che hanno bisogno di regole ma l’arte non è una di queste.

4. Le storie più interessanti sono quelle diffamatorie.

La signora Thornton sottolinea che la frode, l’aggiustamento dei prezzi, e l’evasione fiscale sono ovunque nel mercato dell’arte, ma il suo ufficio legale non le permetterà di pubblicarlo. Ma queste sono pratiche illegali endemiche solo nel mondo dell’arte? Non sono queste stesse losche strategie prevalenti in un sacco di altre imprese? E’ vero, molti stranieri non pagano mai le tasse sui loro investimenti d’arte e sulle transazioni commerciali, e ci sono hedge fund offshore esentasse per anni, ma questa non è una novità. Sul lungo termine le plusvalenze nell’arte sono superiori a quelle per altri investimenti, per cui gli investimenti d’arte sono in realtà in una situazione di svantaggio a causa delle imposte che pagano i cittadini americani. In fondo, non c’è alcuna pistola fumante qui: molti stranieri negli Stati Uniti non pagano le tasse su tutto ciò che fanno, ed è sbagliato. In realtà, che stupido che sono, che cosa ho pensato? Mando tutto quello che ho al Port Duty Free di Ginevra sul conto di un’anonima compagnia delle Isole Cayman proprio in questo momento!

5. Oligarchi e dittatori non sono fichi.

Vorrei poter essere fico e d’accordo, ma costoro mi piacciono molto, soprattutto se acquistano quello che sto vendendo. Purtroppo, di solito non lo sono. Questi tipi di acquirenti sono cacciatori di trofei, ma non hanno né il tempo né la voglia di andare alla scoperta delle cose. L’arte, per costoro, è una delle dimostrazioni del loro successo pecuniario. Sì, fa schifo, perché sono così noiosi e tutti raccolgono gli stessi cinque nomi, ma mi ricordo quando, solo pochi anni fa, nessuno di loro collezionava nulla. Anch’io sono disgustato dai mercanti e da certi artisti che hanno prodotto opere d’arte e spettacoli e fatto tutto quello che potevano fare solo per assorbire quei soldi di nuovo tipo, ma ho ancora la speranza che un giorno questi collezionisti svilupperanno i loro gusti. Ho visto collezionisti star del cinema che si limitano a comprare Warhol o Basquiat, e celebrità sportive e musicali che vogliono solo ciò che è caldo sul mercato. Sono forse migliori? È per questo che non mi importa se non sono fico, perché non è più tempo per essere fichi.

6. Scrivere sul mercato dell’arte è dolorosamente ripetitivo.

Io … io suppongo si potrebbe dire che circa la maggior parte delle cose, e così via, uno sia d’accordo, sia d’accordo. Preferisco scrivere di scrivere di non scrivere sulla commercializzazione dell’arte e il suo mercato.

7. La gente vi manda comunicati stampa incredibilmente stupidi.

La gente mi invia troppi comunicati stampa, e-mail pirotecniche e vanagloriose di mercanti che elencano ciò che dichiarano di aver venduto a una fiera d’arte, per cui qui siamo d’accordo, ma chi se ne frega? Posso anche sostenere di aver vinto la lotteria, o di poter godere più a lungo di più grandi erezioni, e che qualcuno mi ha lasciato un milione di dollari in un conto a Lagos.

8. Ciò implica che il denaro è la cosa più importante nell’arte.

Ciò riporta alla mente la volta che qualcuno ha detto a Andy Warhol: “Beh, che cosa ti piace di più?” Al che egli rispose: “È così che ho iniziato a dipingere il denaro.”

9. Si amplifica l’influenza del mercato dell’arte.

Implicita in questa affermazione è l’errata convinzione che l’arte sarebbe ad uno stato più puro, se non fosse stata influenzata dal denaro. Gli artisti hanno bisogno di soldi, e la maggior parte di essi non leggono nulla intorno al mercato dell’arte. Coloro che inseguono i prezzi alti e il successo commerciale hanno in gran parte il fallimento stampato sui loro volti. Ma diventare ricchi non fa cambiare i buoni in cattivi, e suppongo che data la possibilità di scegliere, sarebbero tutti ricchi e buoni.

10. La paga è sconcertante.

Qui nessun argomento. E ‘un po’ tragico, ma, ripeto, nessuno ci ha costretti a scrivere.

Alla luce delle devastazioni del recente Frankenstorm nel quartiere artistico di Chelsea, è un buon momento per pensare a quello che è stato e a ciò che sarà. Con i cataloghi d’asta ammucchiati sulla mia scrivania, e in testa le visioni degli allagamenti fuori dalla galleria, mi chiedo verso quale direzione andremo da qui in  poi. Forse non smetterò di scrivere ancora per il mercato dell’arte e P.S. Sarah Thornton mi ha scritto che non ha smesso di farlo per The Economist … hmmm … mi preoccupavo perché ero indeciso, ma ora non sono più così preoccupato.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger e ideatore e-learning. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022.
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