Risposta (in 7 tesi e 2 excursus) alla domanda: “Che cos’è una rivoluzione?”. Uno scritto di Alberto Burgio.

Alberto Burgio
Alberto Burgio

Solo chi non ha abiurato può continuare a scrivere e pensare un altro mondo possibile. Solo chi non ha tradito può spendere il suo tempo in ricerche che, per la maggiore, moltissimi aborriscono. In queste mie parole non dovete leggerci alcunché di retorico: è solo la constatazione di un dato di fatto. Il tema dello scritto di Burgio, sostanzialmente la Rivoluzione, non ha una trattazione scontata né è un terreno filosofico molto battuto. Spesso, come nota lo stesso Burgio, il termine è stato usato in modo  improprio, fatte salve – ovviamente – le discontinuità culturali rappresentate dalle epoche storiche in cui, di volta in volta, il termine è stato usato.

La trattazione di Burgio inizia spiegandoci che il termine Rivoluzione ha un senso prettamente culturale; è cioè legato alla nostra storia, al nostro modo di stare al mondo ed intenderlo. Questa storia e, quindi, questo modo di essere e vedere il mondo, sono determinati dall’accumulo di ciò che siamo stati – concretamente – finora e siamo attualmente. Il testo ci suggerisce anche che la lettura del termine può presentare più di una ambiguità, talvolta anche pesanti. Egli, dunque, parte elencandoci due coppie oppositive inerenti il concetto di rivoluzione: 1) la Rivoluzione come ritorno allo stato d’origine e la rivoluzione come superamento del presente, e 2) la Rivoluzione come realtà, di contro ad una condizione di irrealtà presente nello stato presente da superare. Rivoluzione come riallineamento, quindi. Si continua, poi, con un affermazione di stato, che è il riconoscimento del suo essere prodotto di una condizione dinamica: la Rivoluzione come lungo processo di modificazione degli assetti esistenti in cui l’effetto di rottura radicale- l’evento rivoluzionario – è solo la esplicita e conclamata fine del processo.

Qui mi preme aprire una breve parentesi sulla questione dell’ambiguità del termine che può, a ragione, venire usato per scopi anche molto diversi. Entra, perciò, in gioco la cosiddetta zona grigia di incontro fra il concetto di Rivoluzione della destra e della sinistra (o dei fascisti e dei comunisti) che risiede nella questione della rottura dell’ordine esistente verso l’inedito o verso un più rassicurante passato, ma soprattutto nel rivendicare una continuità tra le forme di comunismo ed egualitarismo del passato, con quelle di oggi e del domani, attualizzandole e dichiarandole ancora percorribili. In ciò, anche se su di un terreno specifico differente, lo sguardo alla ricerca di legittimità e continuità col passato è comune con la destra, fatte salve le finalità che non sono assolutamente le stesse, a cominciare dalla questione sociale fondamentale rappresentata dalla divisione in classi della società. Ovvero, riassumendo: da chi e per chi viene fatta la Rivoluzione. Perciò, se il comunismo monacale è percorribile, allora, lo è anche la decrescita e tutto ciò che ne consegue, ovvero la socializzazione della miseria a cui, troppo spesso, è stata ridotta tutta la storia del Socialismo Reale. Questo è il punto, secondo me, da indagare meglio in tutta l’analisi di Burgio, punto che ho ritrovato anche nel bellissimo libro di cui produrrò recensione Leggi economiche universali e comunismo.

Continuando nella lettura del testo di Burgio, egli ci informa della complementarità tra riforme e Rivoluzione, quando le prime facilitano l’acutizzarsi delle contraddizioni fino alla rottura rivoluzionaria delle compatibilità di sistema. Tuttavia, la cosa non si risolve in modo così semplice, dichiarandone cioè la complementarità. Infatti è sulla finalità delle riforme che si ingenera lo scontro tra riformatori e rivoluzionari. Da quel momento le riforme sono intese come cambiamenti compatibili con l’esistente e, perciò, opposte alle Rivoluzioni concepite come cesure storiche.

Ma torniamo per un momento alla complementarità e alla compresenza di segni e condizioni diverse all’interno di un medesimo stato. Il termine Rivoluzione designa sia l’evento che il processo: nel primo caso si tende a privilegiare il piano di lettura politico (politico-istituzionale); nel secondo caso il piano di lettura è sociale (economico e culturale). Tra le teorie che concepiscono la Rivoluzione come evento, alcune di queste insistono sulla debolezza del sovrano sul piano interno; altre sulla divisione delle élites politiche, economiche e religiose fino all’aperta conflittualità; altre puntano l’attenzione sulla crescente autonomia politica dei subalterni. Tra le teorie, invece, che concepiscono la Rivoluzione come processo, alcune pongono l’accento sul crescente divario tra potere reale e potere legale, altre sulla crisi di legittimazione che di norma conseguono alla diffusa povertà e al sentimento di ingiustizia sociale.

A ben guardare, comunque, l’idea di Rivoluzione come processo è complementare all’idea di Rivoluzione come evento, essendo quest’ultimo, soprattutto nel caso della borghesia, il risultato del processo, il salto di qualità che si verifica quando la quantità dei mutamenti supera la soglia di tolleranza dell’ordine precedente. Lo stesso rapporto di complementarità sussiste anche tra le cause sociali delle Rivoluzioni e quelle politiche: la crisi del potere politico libera e in parte alimenta la crisi sociale che è – di solito – tra le principali cause scatenanti della crisi politica.

Un altro punto fondamentale concerne la legittimità della costruzione di un modello. Dobbiamo allora sapere che ogni vicenda è specifica e che, mentre i modelli generali e stilizzati vanno rifiutati, vanno invece accolti perché necessari e ineludibili, dei chiari quadri concettuali.

Si apre, perciò, un’altra questione intorno alla valutazione dell’evento rivoluzionario: si tratta di continuità o rottura, di persistenza o mutamento ? La sequenza dei fatti storici è sempre un continuum e quindi è improprio parlare di tagli netti che determinano soluzioni di continuità. Si può parlare piuttosto di cesure, in quanto si considerano decisivi determinati aspetti (funzionali, sociali o livelli di realtà) della totalità storica. Il che è possibile solo sulla base di un quadro concettuale o modello teorico.

Nessun concetto di Rivoluzione è soddisfacente se non mira ad individuare la logica delle transizioni epocali, ovvero, un nesso dinamico invariante, trans-storico, cioè operativo lungo l’intero tempo storico. Abbiamo, quindi, bisogno di una teoria generale delle cesure rivoluzionarie. Contro una possibile formulazione di una teoria di questo tipo sono, ad esempio ed in contrasto con Marx, Althusser e Debord che sostengono sia impossibile una formulazione credibile e coerente sulla questione.

Burgio ci rammenta che Marx ci spiega, e questo ha una rilevanza profonda e basilare, che la borghesia è il primo soggetto storico la cui cultura coincide con la logica oggettiva  dello sviluppo storico. Ovvero; la borghesia fa delle attività economiche – cioè di quelle attività che sono il fondamento di ogni formazione sociale – il cuore della propria identità, della propria cultura ed azione nella storia. Marx questo lo sapeva ed aveva, perciò, individuato questa teoria trans-storica delle cesure rivoluzionarie. Questa teoria è leggibile nella Prefazione di Per la critica dell’economia politica del 1859, dove egli traccia la sua teoria socio-centrica della Rivoluzione dove scrive che una Rivoluzione è tale se determina il mutamento del modo di produzione. Dice Marx nei Grundrisse:

Tutte le forme di società finora esistite sono crollate  in presenza dello sviluppo della ricchezza, o, che è la stessa cosa, delle forze produttive sociali.

Per quanto riguarda la Rivoluzione futura, le idee di Marx sono abbastanza chiare e suggeriscono di investire, politicamente, sul contrasto tra le forze produttive e i rapporti sociali. Quindi, in primo luogo, sviluppare la coscienza di classe dei proletari.

Ancora, secondo Marx, i conflitti che si sviluppano tra le forze produttive e i rapporti di produzione, sono gli unici conflitti che conducono a mutamenti rivoluzionari, poiché determinano il mutamento di quelle modalità complesse dell’attività riproduttiva sociale che Marx chiama modo di produzione.

Esistono, ci fa notare Burgio, dei mutamenti profondi (non Rivoluzioni, quindi) in grado di modificare assetti di classe e stili di vita senza intaccare il modo di produrre. Paradigmatico è il caso del fascismo che ha la pretesa di imporre una discontinuità con le epoche precedenti, tuttavia con delle dichiarate finalità restaurative. Si tratta, perciò di una grande trasformazione non rivoluzionaria, ovvero, di un mutamento profondo, come detto sopra. In questo senso va la riflessione di Gramsci sulle Rivoluzioni passive che hanno lo scopo di difendere e consolidare lo status quo. Il fascismo è paradigmatico in questo senso per l’analisi gramsciana. All’interno della modernità, quindi, assistiamo al rinascere di quell’idea di Rivoluzione come ritorno, come recupero del passato e benefico regresso.

Dalle analisi di Marx, tuttavia, si evince che una Rivoluzione è (anche) la vittoria di una parte della società prima subalterna. E il raggiungimento di questo scopo (o obiettivo) si ha, assumendo alcuni punti fermi analitici. Secondo Marx, oggettivo e soggettivo, non sono altro che due lati della realtà, la quale risulta precisamente dalla loro continua fusione nell’attività umana. Coerentemente alla precedente affermazione, il conoscere è un fare e non un vedere, come molti pensano. Da un alto, quindi, si coglie la presenza attiva e costitutiva del mondo esterno in ciascuno di noi, dall’altro consente di percepire il lavoro umano in esse oggettivato. Da ciò deriva che un determinismo in Marx non esiste, poiché presupporrebbe l’estraneità del soggetto alla realtà materiale e la scissione tra oggetto e soggetto. Esiste, invece, un fondamentale richiamo alla soggettività rivoluzionaria  senza la quale nessuna crisi di legittimazione della società presente, può sperare di trasformarsi in Rivoluzione.

Si pone, infine, per i comunisti un’ ulteriore ed importantissima questione: la Rivoluzione borghese è l’ultima che si fonda su un accumulo di potere che poi sfocia nell’evento rivoluzionario. Secondo queste premesse, allora, la Rivoluzione comunista sarà un atto politico cosciente e la costruzione del socialismo partirà in conseguenza di esso. Ciò contrasta con l’analisi di Gramsci che, tuttavia, delinea su queste basi la possibilità che il proletariato, in qualche modo, costruisca nel tempo le sue forme economico-politiche peculiari, attraverso l’esperienza storica e l’opportunità politica. Sulle rivoluzioni proletarie, quindi, incombe un compito ben più importante e complesso, a livello soggettivo, che non nel caso di quelle borghesi.

 

 

 

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