Mao e la Rivoluzione cinese, un libro di Maurice Meisner.

Mao e la rivoluzione cinese
Mao e la rivoluzione cinese

Un libro appassionante quello di Meisner edito da Piccola Biblioteca Einaudi, poiché riesce a tracciare un quadro attendibile in quanto documentato della situazione della Cina nel ventennio che vede il tramonto del millenario impero cinese, la fase conclusiva delle ambizioni imperiali occidentali e giapponesi e il risveglio dei contadini e delle masse diseredate cinesi. A differenza di Edward Snow, il cui libro Stella rossa sulla Cina, è più un resoconto giornalistico su Mao e sulla storia della rivoluzione cinese che un saggio di politica e storia, quello di Meisner è un vero e proprio saggio di storia sociale e politica, con vasti riferimenti alla storia del comunismo mondiale. Resoconto giornalistico, quello di Snow, raccontato soprattutto per mezzo di una mediazione di fatti vissuti attraverso le lenti interpretative proprie e di Mao stesso.

Il libro di Meisner dimostra, con ampia documentazione, quale sia stata l’evoluzione del pensiero di Mao, che potremmo definire un eterodosso, interprete certamente comunista, ma antidogmatico, delle questioni cinesi. Di origine sociale relativamente benestante (suo padre era un medio proprietario terriero che acquisì questa condizione per mezzo di un antecedente impiego nell’esercito, mettendo da parte dei soldi nello stesso momento in cui la Cina, nel suo insieme stava affossandosi sotto tutti i punti di vista), passa da letture di testi classici confuciani, e poi democratici grazie alle traduzioni di testi occidentali in cinese, facendo poi la conoscenza delle teorie anarchiche ed infine, ma proprio alla fine del suo periodo di formazione intellettuale, del comunismo. Conoscerà il comunismo piuttosto tardi, quindi, e vi aderirà prima di aver appreso il marxismo in modo approfondito. Questa condizione risulterà comune a tutti i comunisti cinesi. I primi comunisti cinesi, infatti, provengono da un indistinto movimento studentesco; i leader di partito erano giovani senza esperienze politiche e ideologicamente insicuri. Queste caratteristiche fanno si che i primi capi si sentissero meno legati dall’ortodossia marxista e perciò più disponibili delle loro controparti occidentali a rivedere la teoria per adattarla a condizioni storiche impreviste. Al tempo stesso, tuttavia, ne derivò anche una mancanza di fiducia che favorì la dipendenza dal Comintern moscovita che tendeva sempre più a proporsi come l’unico depositario della verità politica.

Mao, tuttavia, inizia non solo ad essere inviso al Comintern e ad una parte del PCC per la sua visione politica che individua nei contadini e non negli operai gli agenti della rivoluzione cinese, ma dopo i massacri del 1927 diviene in un certo senso ostile al Comintern, al quale continuerà – comunque – a pagare un tributo formale e rituale. Il rapporto veramente controverso non è comunque solo quello col Comintern, ma essenzialmente con Stalin. È strano sentire molti comunisti parlare bene dell’uno e dell’altro, come parlare bene di Stalin e Tito, evitando di dare dei giudizi politici sulle azioni concrete dell’uno e dell’altro. Personalmente ho sempre avuto il sospetto che gli ammiratori di Stalin siano tali proprio perché il caro baffone è stato – sistematicamente e spesso – un disgregatore delle iniziative rivoluzionarie dei comunisti e, risulta ancora più sospetta l’affermazione, proposta spesso dai suoi ammiratori, di essere stato costui un rivoluzionario che, nel mentre costruiva il socialismo in un solo paese, non aveva mai abbandonato la prospettiva della rivoluzione mondiale. Sarebbe importante capire in che senso. Io mi sono convinto, negli anni, che baffone, a conti fatti abbia avuto un sacco di ammiratori dall’altra parte della barricata, fornendo esempi di come si boicotta la rivoluzione. Scrive Meisner:

Il riaccendersi della guerra civile fu ritardato – e complicato – da Stalin con un atto che Mao deve aver considerato come un ulteriore tradimento sovietico. Nella Conferenza di Yalta del febbraio 1945 Stalin aveva segretamente rassicurato Roosvelt e Churchill che l’Unione Sovietica non avrebbe appoggiato i comunisti cinesi e aveva concordato che il Kuomintang era l’unico partito politico in grado di guidare la Cina , un’opinione che il dittatore sovietico aveva ripetuto diversi mesi dopo alla Conferenza di Potsdam. In cambio del suo aiuto nella guerra contro il Giappone (e per non aver sostenuto i comunisti cinesi), a Stalin venne promessa la restituzione della ferrovia cinese orientale e di Port Arthur , una concessione della Russia zarista nella Manciuria persa contro i giapponesi nel 1905.

Questo dopo anni ed anni in cui (come già saprete) Stalin voleva i comunisti cinesi subordinati al Kuomintang che Stalin ammirava, soprattutto nella figura di Chiang Kai Shek, anche quando i comunisti cinesi furono ripetutamente e seriamente minacciati nella loro esistenza fisica dall’esercito nazionalista, appunto. Ancora Meisner:

Stalin non informò Mao Zedong di questi accordi tra “grandi potenze”. Mao divenne dolorosamente consapevole di questi accordi segreti solo alla vigilia della resa giapponese nell’agosto del 1945, quando arrivarono le allarmanti notizie che l’Unione Sovietica aveva firmato un trattato di alleanza con il governo nazionalista di Chiang Kai Shek. Il PCC non avrebbe più potuto aspettarsi di ricevere l’assistenza sovietica quando fosse nuovamente ricominciata la guerra civile, mentre il sostegno degli Stati Uniti al KMT non sarebbe certo venuto a mancare. Mao non fu più a lungo in grado di resistere alla pressione dell’Unione Sovietica perché cercasse un “governo di coalizione” con il KMT, e un governo nel quale il PCC avrebbe ora sicuramente avuto il ruolo del partner più debole. […]

Questo rapporto fatto di piccole e grandi infamie, aveva la sua origine nel fatto che Stalin temeva che Mao e la Cina potessero rappresentare un modello alternativo molto concreto e pronto all’uso, rispetto a quello sovietico. Stalin non perdonava a Mao e alla Cina tutto ciò. Con il KMT prossimo alla sconfitta totale,

[…] Stalin diede un ulteriore contributo alle relazioni sempre più ostili tra Mao e Mosca. Alla vigilia della vittoria dei comunisti cinesi, egli avvisò che l’EPL non avrebbe dovuto attraversare lo Yangzi e che la guerra civile avrebbe dovuto concludersi con un regime comunista nella Cina del Nord e uno stato del KMT nel Sud. Lo scopo apparente di questo schema era quello di evitare di provocare un intervento diretto degli USA, ma è più probabile che Stalin temesse la sfida che Mao avrebbe rappresentato per Mosca come leader di un regime comunista rivale in una Cina unita. In ogni caso, ancora una volta Mao Zedong ignorò il parere di Stalin e il 20 aprile ordinò l’offensiva generale per completare la conquista della patria e unire tutta la Cina sotto la guida comunista.

Nonostante tutto ciò, Mao sapeva benissimo che avrebbe dovuto pendere dalla parte dell’URSS, se voleva avere una sponda per un aiuto economico e politico, visto l’isolamento praticamente totale nel quale si trovava la rivoluzione. Comunque anche Stalin, dopo la fine del secondo conflitto mondiale e l’apertura della lunga fase della Guerra Fredda, aveva bisogno di sentirsi sicuro ai suoi confini orientali. In tal senso vanno visti i negoziati tra Stalin e Mao del 1950. L’URSS perciò, aumentò la propria disponibilità verso un accordo con la Cina, sia sul piano dei confini tra i due paesi che sul predetto piano economico-politico. Tuttavia poco ottenne Mao sul piano strettamente economico

[…] Stalin proponeva contratti gravosi […] Quando Mao ritornò a Pechino, alla fine di febbraio 1950, poteva vantare solo un successo parziale. Aveva ottenuto da parte sovietica la garanzia di ricevere assistenza militare nel caso la Cina fosse stata attaccata dal Giappone o, implicitamente, dagli Stati Uniti. In cambio Mao era stato costretto a mandar giù il suo orgoglio nazionalista riconoscendo che la Mongolia era de facto un satellite sovietico e acconsentendo inoltre a malincuore al persistere dell’occupazione russa di Dairen e di port Arthur in Manciuria . In un accordo separato circa l’aiuto economico, Stalin offrì solamente una somma molto misera sotto forma di crediti a interesse. Ma per quanto misero in termini puramente economici, questo accordo permise alla Cina di accedere in notevole misura alle competenze sovietiche in campo scientifico e tecnologico e questo fu un elemento che si rivelò essenziale per il successo della spinta maoista verso una rapida industrializzazione, che sarebbe stata lanciata nel 1953.

Mao, dopo questo incontrò, e col bagaglio ultraventennale di rapporti sofferti col leader sovietico, maturò un sentimento di sfiducia ancor più pesante nei suoi confronti, anche se si impegnò a salvare l’apparenza, proclamando sempre – formalmente – la grandezza dell’esperienza sovietica ed il suo essere un punto di riferimento per la rivoluzione mondiale.

Un altro piano di indagine che il libro di Meisner affronta è quello del rapporto controverso fra Mao e il Partito. Intanto bisogna sapere che Mao considerava le controversie e le contraddizioni interne al Partito come, in un certo senso, non distruttive, non antagonistiche. Questo perché egli considerava il Partito – in ultima analisi – dalla stessa parte della barricata del popolo cinese e dell’avanguardia contadina. La figura titanica, ed al tempo indiscussa, di Mao aveva un ascendente incommensurabile nel Partito, grazie al mito costruito intorno alla sua persona durante la lunga guerra di liberazione. Grande combattente e molto fortunato, poteva definirsi come un vero e proprio condottiero, molto amato e rispettato dalla base contadina con la quale condivise gli anni più problematici della guerra. Mao, tuttavia, proprio a causa di questa sua titanica presenza finì per essere un ostacolo all’implementazione di nuove strategie economiche e sociali e alla tendenza colleggiale del Partito Comunista Cinese. Durante il periodo del Grande Balzo, come nella Rivoluzione Culturale, che possiamo giudicare come esperienze mediamente fallimentari, la sua presenza autoimposta fu un handicap piuttosto che un aiuto per il paese.

Intorno all’esperienza, controversa, della Rivoluzione Culturale ci sono molti equivoci che il libro scioglie. La Rivoluzione Culturale, innanzitutto, si fa contro il Partito, accusato di degenerazione. Tuttavia, è interessante notare la scissione di classe che vede, inizialmente, dietro il Partito lavoratori e contadini (relativamente privilegiati dallo status quo instaurato dal Partito stesso) mentre dietro Mao ci stanno studenti e spodestati delle ex-classi abbienti. Perciò la Rivoluzione Culturale assume più le caratteristiche di un movimento terroristico delle ex-classi privilegiate che cercano di riguadagnare gli spazi perduti. Un movimento socialmente antiproletario che, però, si ammanta del nome di proletario. Perché, quindi, la Rivoluzione Culturale? In buona parte perché Mao si gioca le ultime residue proprie forze politiche per evitare l’emarginazione; poi perché certamente una certa burocratica degenerazione e rilassatezza era in corso e Mao temeva un cambio regressivo. Tuttavia, nel tempo, la Rivoluzione Culturale coinvolse anche la base operaia e contadina. Ricordiamo l’episodio topico e rilevante della Comune di Shanghai, soppressa poi dall’esercito. Visto il numero di sollevazioni che si stavano ormai susseguendo nel paese e troppi intellettuali e operai che stavano prendendo troppo sul serio le idee espresse dalla Rivoluzione Culturale, Mao decise di soffocarla con l’invio dell’esercito.

Meisner, comunque, esprime chiaramente il concetto che, gli inevitabili fallimenti del Grande Balzo e della Rivoluzione Culturale siano stati causati non dall’eccesso di marxismo, ma dalla sua assenza. Questa assenza non fu una cosa avvenuta improvvisamente, a cielo sereno, ma fu l’esito o meglio la ovvia conseguenza di un tipo di marxismo, il maoismo, che era di certo inedito e forse anche avventurista sotto molti aspetti. Io, però, salverei l’esperienza del tutto singolare del maoismo nella sua originalità, perché nel bene e nel male ci ha dato e ci dà la possibilità, anche nel suo apparente recupero del capitalismo come strumento di confronto e lotta politico-sociale con l’Occidente, di indagare errori, successi e ritardi nel processo di costruzione concreto di una società di tipo diverso. Basata su valori cardinali come la giustizia e l’uguaglianza.

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