La profezia di Angelo Vivante.

Angelo Vivante
Angelo Vivante

Il 1° luglio di poco meno di un secolo fa moriva Angelo Vivante, intellettuale triestino, figlio non riconosciuto della Trieste ebraica, borghese, socialista. Egli riuscì in un’impresa che fa invidia ad ogni intellettuale: azzeccare una profezia. Essa compare nel suo lavoro-cardine, Irredentismo Adriatico, dove l’autore medita sulla questione nazionale a Trieste e sulla inclinazione della borghesia locale all’opportunismo. Vivante farebbe tranquillamente a meno di raccogliere tutto quel materiale, pubblicarlo in un libro e attirare gli strali, scandalizzati, dell’intellighenzia cittadina. Tuttavia, nelle sue tesi egli sottintende che, una volta messo in discussione l’Impero plurinazionale Asburgico, vi può essere solo che divisione, astio, inimicizia fra i lavoratori e le classi popolari triestine, tenute contrapposte dalle sirene nazionaliste. Egli immagina un avvenire in cui gli interessi della società triestina a cui appartiene non saranno più, non solo ricomponibili ma nemmeno conciliabili, all’insegna di un rompete le righe in cui ognuno si sentirà libero di imporre il pro domo sua; una frammentazione (questa si vera) della società causata dall’assenza di una ragione centripeta di coesione (l’Impero), superiore alle tante ragioni di ogni gruppo nazionale o etnico di riferimento. Un valore superiore al quale sacrificare il proprio piccolo egoismo dallo sguardo breve.

Ciò che Vivante antivedeva era la Trieste del dopo Austria-Ungheria e soprattutto degli ultimi 50 anni. Una Trieste, fascistizzata prima a danno di decine di migliaia di cittadini dell’ex-Impero; poi, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale e dopo il breve raggio di sole della ricostruzione post-bellica, senza rotta, senza prospettive, sfiduciata, che non riesce a sfruttare a fondo l’apporto dei suoi nuovi cittadini e non riesce a mettere a valore il lascito delle generazioni passate. Badate; la via d’uscita, l’obiettivo finale per Vivante nato e cresciuto nell’autro-marxismo, era il socialismo da instaurare a livello internazionale che, all’epoca, significava in Europa e in America. Un governo fraterno di lavoratori, basato su mutualismo, rapporti sociali uguali, progressivi, pacifisti e senza sfruttamento. Gli altri paesi avrebbero poi seguito quelli più avanzati sulla via del socialismo.

Egli, con l’orecchio appoggiato alla rotaia, sentiva l’arrivo di una condizione entropica dalla quale nessuno oggi sembra più in grado di uscire, mentre gli attuali amministratori della cosa pubblica si baloccano proponendo progetti che non partono mai e gli intellettuali (i soliti 4 gatti) non riescono a raccogliere attorno a sé le forze per ripartire a costruire una grande direttrice culturale. D’altronde, nessuno brandisce Vivante come vessillo in questa Trieste terra di nessuno dall’Italia amministrata. V’è da affermare un’ulteriore questione sul fronte della classe dirigente locale, altresì borghese: decenni di sviluppo drogato dalle partecipazioni statali eredi di quello statalismo tipicamente fascista che nel carrozzone-IRI vedeva la sua realizzazione massima, ha sottratto alla competizione, come all’investimento in ricerca e tecnologie, le imprese locali spegnendone la forza.

Non si tratta, perciò, di frammentazione delle sole classi popolari, ma anche della scomparsa di quelle imprenditoriali, naufragate assieme alla coscienza di sé, con funzione di traino, siano esse le famose famiglie imprenditoriali o siano esse unioni manageriali piuttosto che consortili in grado di imporre un’agenda programmatica attorno alla quale le classi lavoratrici possano aggregarsi anche per opporvisi, invece che essere abbandonate a se stesse. Abbandonate poiché il socialismo dell’epoca di Vivante oggi si è trasferito in altre esperienze, abbandonando la decadente Europa. Badate, a livello imprenditoriale c’è ancora qualche rimasuglio dello splendore del passato, come ci sono ancora (quasi) tutte le Assicurazioni che contano, ma il problema risiede proprio nell’impossibilità di muovere queste forze in una ricomposizione costruttiva. Questo, forse, è il tratto che più significativamente unisce la città all’Italia odierna e l’allontana dall’Austria.

Del contesto cittadino attualmente imperante dobbiamo tenere presenti un paio di cose che sono, purtroppo, divenuti comuni alla storia dell’Italia e dell’Occidente tutto. Intanto, l’affermazione di un tipo di cultura, detta post-industriale, che ha sostituito i contenuti ed il pensiero ragionante con lo spettacolo (riflesso della sostituzione della produzione con la finanza), l’imbonimento mediatico, la propaganda a volte sottile ma più spesso sfacciatamente farlocca, espressione genuina di gruppi sociali organizzati in cordate di interessi, spesso in mortale competizione tra loro, con l’unico obiettivo di un posto alla tavola buona per spartirsi la torta del capitale, più spesso pubblico che non privato.

Frattanto i “4 intellettuali” oscillano tra una comunicatività auto-compiaciuta – quando non complice – e una politicizzazione per lo più sterile, di facciata. Nessuno li calcola, nessuno li teme. Tutti hanno imparato a sdoganarli. Essi sono accettabili, perché parlano di cose loro, perché non si sbilanciano, e quand’anche lo facessero sarebbero capaci di farlo a metà, perché sono pronti ad accodarsi al potere piccolo o grande, perché hanno nel sangue il compromesso mondato da ogni critica e, nei neuroni del loro cervello imperversa la necessità della sopravvivenza, obbligati dalle improbabili leggi hegeliane del “se esiste ha ragione di esserci”. Ma, in fin dei conti, ci si sdogana a vicenda, visto che si recitano gli stessi valori e si muove la coda sulla base degli stessi principi in tutto lo spettro politico-sociale. Non vorrei peccare di qualunquismo, perché non sono qualunquista e quindi vorrei affermare chiaramente che ci sono delle differenze di carattere e anche di prese di posizione. Alcuni sono più determinati ed onesti di altri, è evidente. Ma in fondo partecipano tutti dello stesso gioco, non per cattiveria, ma perché non si vede un’alternativa. Massimo Recalcati, Lacaniano di formazione, direbbe che è tramontato il soggetto del desiderio, un soggetto capace di desiderare e quindi immaginare.

Sia chiaro, altresì, che la gara tra istruzione e televisione, tra argomentazione e imbonimento spettacolare è stata vinta dalla televisione che in Italia non era mai scesa tanto in basso. Fatte salve le poche eccezioni, ci mancherebbe. Per i più giovani, in particolare, sono le diverse forme di spettacolo a stabilire i riferimenti culturali, nonché a creare la “verità” riguardo al passato. E’ così che i giovani si costruiscono la loro verità e ci sarebbe da felicitarsi dell’assenza di interesse, da parte dei media mainstream, intorno alla città di Trieste, se non fosse che le poche cose prodotte sono ancor più fuorvianti della mancanza di interesse. Perciò Trieste diventa, a turno, set cinematografico per argomenti che non la riguardano o location per cose attinenti alla sua storia (da Sissi alle foibe, tanto per intenderci) che vengono trattate in una maniera talmente ideologica, superficiale e dilettantesca che ci sarebbe da spendere giornate intere ad emendarle. Dopotutto questa è la storia ancora (volutamente) incompresa della città e di tutti noi: lo sterminio di ogni riferimento culturale e di ogni esercizio di ragionamento a tutto vantaggio della riduzione della persona a spettatore. Nessuna dittatura era riuscita a tanto quanto la….democrazia capitalista fondata sul consumo.

Angelo Vivante non poteva esprimere meglio le sue paure da veggente: egli temeva la politica dei “risvegli” nazionali e gli obiettivi predatori della sua classe sociale. Principalmente le mire di quest’ ultima, che è stata la vera responsabile dell’involuzione verso il capitalismo consumista. In effetti, per annichilire ogni fratellanza e valore affettivo tra gli uomini, si doveva dividerli a morte. Dato che le questioni culturali (come lo sono quella nazionale e linguistica) inducono il cittadino sensibile a distinguere tra intellettuali di vaglia, mediocri o assolute nullità, e dato che le ultime due categorie sono sempre più numerose della prima, bisognava politicizzare, nazionalizzandola, anche la cultura nella sua più ampia accezione. E allora ci si inventava una cultura di frontiera o di confine, in un posto dove per secoli questi non c’erano stati assolutamente. Eccoci dunque ad abborracciare metodi critici per dimostrare che, mentre sappiamo benissimo cosa intendiamo per politica, nell’ambito culturale il concetto di esperienza ed espressione estetica (e loro dinamiche storiche) é una funzione (ed una finzione) paternalistica, intesa a rendere la vita impossibile, a turno, ad ogni gruppo etnico, linguistico o nazionale che dir si voglia, i quali devono essere giudicati in base alle proprie appartenenze e non in base ai meriti del proprio patrimonio culturale.

Non vi erano, infatti, dubbi sulla forza della cultura italiana, anche nel confronto con quella slava, altrettanto significativa. Ma proprio per questo, l’uomo di cultura italiano doveva sforzarsi di scavare, valorizzare, innalzare i propri simili del gruppo linguistico slavo. Al contrario, invece di dimostrare la propria forza come fece Thomas Jefferson più di un secolo prima addirittura su questioni politiche quando parlava dell’Unione

Se c’è tra noi chi voglia dissolvere questa Unione o cambiarne la forma repubblicana, lo si lasci indisturbato, a testimonianza della sicurezza con la quale si possono tollerare opinioni errate là dove la ragione è libera di combatterle.

l’intellighenzia italiana di Trieste, inclusa quella di religione ebraica, dimostrava la propria insicurezza anche in ambito culturale alleandosi col fascismo per completare ciò che non era riuscita a fare col supporto liberal-nazionale e massonico.

Fallimento di una classe e di una cultura. Sopravvivenza di esse a se stesse, senza ormai più reali possibilità e capacità di avanzamento. Crisi di visione ed auto-rappresentazione di una classe sociale intera e di un mondo. Vivante aveva già capito che sarebbe scoppiata la guerra, come in effetti scoppiò nel 1914. In essa vide un suo personale fallimento, sensazione resa ancor più grave dalla rottura con la famiglia e dal suo isolamento rispetto ai suoi pari in città. Il 1° luglio del 1915, si toglie la vita.

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