Gli ultimi giorni di Cermeli. Un testo romanzato sul sacrificio di Sergio Cermeli.

Sergio Cermeli
Sergio Cermeli

Bisogna ammettere di avere paura, ammettere che si teme il nemico, si teme di essere violati, torturati, bastonati, fatti a pezzi per delle maledette informazioni. Bisogna ammetterlo per non essere dei traditori, per non scoprire dopo la propria debolezza. Considerazioni di questo tipo, Cermelj le avrà fatte; avrà messo in conto tutto, anche la morte. Girava armato. Doveva potersi difendere se attaccato. Sapeva ciò che l’Ispettorato Speciale faceva ai comunisti o a chi li aiutava.

Si deve dichiarare la propria debolezza, la propria limitata umanità. Non c’è scampo: siamo tutti deboli, oltre un certo limite possiamo crollare. Franz tentò il suicidio per questo motivo, perché sapeva che sarebbe crollato.

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Gli ultimi giorni di CERMELI.

Quel sentiero per Podgorje.

Sentenza.

.1944? Sarebbe stata una giornata come tutte le altre; almeno così sembrava. Sarebbe andato all’Università e poi via dai compagni a mettere in ordine il materiale che sarebbe dovuto servire per i prossimi volantinaggi. Si sistemò i pantaloni di flanella, presi in prestito dal padre, con un gesto di entrambe le mani come se volesse stirarli e farli sembrare nuovi. Poi legò un po’ più stretta la cordicella che usava al posto della cintura per tenere su i pantaloni: con la giacca sopra non si sarebbe quasi notata. Non c’erano i soldi per comperare una cintura vera; la famiglia doveva mangiare e poi era meglio spenderli per studiare. C. si sarebbe così affrancato dalla vita difficile di chi lo aveva preceduto, avrebbe potuto sperare in qualcosa di meglio dalla vita, un tipo di vita dignitoso, di un certo rispetto; sarebbe finalmente stato considerato un uomo, cosa che quelli della sua stessa origine sociale non potevano neanche sperare.

Ma la politica, proprio la politica doveva appassionarti?”. Era questo un rimprovero mossogli ripetutamente fra le mura domestiche ed erano i suoi vecchi a sferrare gli attacchi più pesanti. Ma non sarebbe servito; la Politica, gli ideali, la Libertà, la Giustizia, un mondo….nuovo. La politica, chi gliela avrebbe cavata dalla testa?

Si mosse da casa alla solita ora, imprecando contro l’uscio che non si chiudeva bene, prese al volo il solito tram su rotaia che con la confusione che faceva ti svegliava in un attimo se ancora sveglio non eri, mentre con la mente vagava attraverso i più disparati fatti suoi. Sceso in “Barriera”, camminava con la cartella sottobraccio e la mano destra in tasca osservando con divertita curiosità alcuni avventori del bar all’angolo. Ne sentiva il vociare, da lì percepito come brusio, qualche risata breve, ne poteva scorgere i movimenti. Pensò: “Ridicole posture da bar”. C’era pure una bella ragazza bionda all’interno; aveva un bellissimo sorriso. Il cielo, di prima mattina, graduava tonalità di rosa ed azzurro che in taluni punti si fondevano creando un colore tenue ed indefinibile. Allungava il passo, imboccando il viale che lo avrebbe portato alla fermata del tram. La conformazione ad imbuto dei blocchi di case che delimitavano la strada, creavano un imbuto naturale che facilitava l’incanalamento della folla che doveva dirigersi verso il centro.

Fu all’improvviso. Scese la notte. Se ne sarà accorto? Uno stridio di freni, un forte rumore di metallo, un volto terrorizzato di fronte a lui, il vetro smerigliato di quel negozio che si frantuma e cade sul marciapiede, una raffica di tuoni orrendi, il suo corpo spinto nel vuoto e poi fino a terra, il sangue sulle mani, sulla cordicella che gli tiene su i pantaloni, fuori dalla bocca a fiotti…..

Lo vennero a prendere più tardi, fermo là com’era caduto un’ora prima sotto quelle raffiche di odio; il sangue rappreso, gli sguardi inorriditi di alcuni, quelli indifferenti di altri. Poi, il silenzio.

Esposizione.

Erano anni in cui le vite delle persone non contavano nulla. La dignità si vendeva a peso. Le persone, tutt’al più erano numeri in un campo di concentramento. Lo avevano cancellato solo perchè riempiva – insieme ad altri – dei fogli bianchi con parole che andavano contro il massacro dell’umanità. Bastava questo per essere cancellato dalla faccia della Terra. Lui fu cancellato così bene che nessuno più se ne ricordò.

21 gennaio?….Se ne stava seduto al tavolo della cucina, con aria pacata, leggendo un giornale illegale che lui aveva avuto grazie alle sue connessioni con gli ambienti democratici, antifascisti, pieni di giovani come lui, che più o meno pubblicamente cercavano di contrastare il normale “corso delle cose” del governo dittatoriale. Ebbe un tremito. Aveva appena finito di leggere un articolo dove si dava notizia dell’inasprimento delle sanzioni contro i “sabotatori”, della repressione degli scioperi contro la fame. Dunque i lavoratori nelle altre città, si erano risvegliati: ma non a Trieste. Perlomeno in quel modo così forte e determinato. Qui permaneva una finta calma imposta dai nazisti e dai collaborazionisti; qui le fratture nell’ordine sociale, erano provocate da differenze sociali ma anche – e talvolta soprattutto – da diversità etniche. Le differenze culturali, di sensibilità nazionale; i torti subiti dagli slavi da parte dei “civilizzatori latini” avevano tracciato un solco profondo e inestinguibile nella struttura della cittadinanza.

La stragrande maggioranza dei componenti dei movimenti e partiti politici che lottavano contro il regime era di estrazione operaia. Era da quella classe che provenivano moltissimi dei quadri e dei semplici militanti di quelle organizzazioni, da lì nascevano le motivazioni ad alzarsi la mattina e rischiare di non coricarsi più la sera. Sarebbe potuto essere altrimenti?

Preludio.

GENNAIO 1932. Si sentiva umiliato e solo e, quel che era peggio, sapeva che questa sensazione sarebbe continuata a lungo. Con la chiusura delle scuole slave da parte del regime fascista, l’odio etnico si era diffuso a macchia d’olio. Era una situazione penosa e piena di violenza. I cittadini di lingua slava (slovena, croata, serba) non si sarebbero più dimenticati di questo atto che loro consideravano, in modo fondato, barbaro. Una volta toccata, ferita mortalmente la dignità delle persone è impossibile ritornare alla situazione precedente di equilibrio e rispetto. E i cittadini di lingua slava covavano risentimento ed odio nei confronti del regime italiano.

C. tornò a casa trafelato quel giorno.

– Ci hanno inseguiti fino al dazio…- disse boccheggiante.

– Cos’è successo? – Chiese in apprensione la madre.

– Ci hanno aspettati fuori da scuola, ci hanno seguiti mentre cercavamo di raggiungere il centro e poi ci hanno attaccati con bastoni e pietre…- Continuò C. tra i singhiozzi.

– Non scendere più in centro C., te l’ho detto tante volte, è pericoloso, sai come stanno andando le cose con gli italiani!” –

La madre aveva un tono di voce pieno d’angoscia.

Questo tipo di scontri e provocazioni di tipo razzista, erano diventati ormai la prassi in città. I “picchiatori” (soprattutto studenti e squadristi) venivano sobillati dalle organizzazioni politiche fasciste, allo scopo di tenere alta la tensione tra le diverse comunità, in maniera da poter gestire i propri interessi politici, facilitati da una permanente situazione di emergenza che generava insicurezza e diffidenza.

Ormai tutti avevano capito che, laddove c’era una possibilità di fratellanza umana o – peggio – una possibilità di unità politica fra lavoratori, al di là della loro lingua, nazionalità o religione, il regime avrebbe fatto di tutto per seminare odio ed incomprensioni. Il fascismo divideva, ostinatamente, ciò che la storia sociale del luogo aveva costruito in secoli di convivenza, talvolta complicata.

La madre si era seduta sulla sua sedia della cucina, con un’espressione rassegnata e umile. Il figlio provava angoscia per quello sguardo sottomesso della madre e si sentiva responsabile del dolore che le causava. In quel momento, i due si trovavano l’uno di fronte all’altra, nella modesta cucina, oppressi dalla tristezza della realtà che li circondava ma fiduciosi che un giorno quella nera cappa che pesava così tanto, sarebbe stata spazzata via, liberandoli da tutte quelle brutture. Facevano parte di una popolazione che non era stata toccata seriamente dal fascismo se non per gli aspetti ridicolmente folclorici; l’anima di quel popolo, come quella di tutti gl’italiani, era ancora intatta,

Gli sloveni, soprattutto i lavoratori sloveni, si sentivano chiamati ad una resistenza su tutti i fronti e di tutti i tipi contro l’oppressione fascista. Il razzismo di cui erano fatti oggetto giorno per giorno, assieme a tutti gli altri popoli slavi, ed agli ebrei, li rendeva sensibili all’impegno civile e politico, se non altro per la loro sopravvivenza. Essi furono la punta di diamante del movimento di liberazione nella zona di Trieste.

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