Ernst Gombrich, una vita per la critica.

Cover_of_The_Story_of_Art_by_Ernst_Gombrich
Cover_of_The_Story_of_Art_by_Ernst_Gombrich

Per Ernst Gombrich il modo più realistico di raffigurare si riduce all’assunzione di un certo tipo di convenzioni. D’altra parte, se non conosciamo le convenzioni non abbiamo alcuna probabilità di indovinare quale sia l’aspetto che ci viene presentato. Gombrich segue il metodo filosofico di Popper. La storia delle scoperte visive e quella della scienza hanno dovuto subire la presa d’atto che la fede baconiana nell’induzione è un mito. Gombrich sostituisce all’induzione lo “schema a correzione” che fornisce una descrizione adeguata del mondo in cui lavora la scienza e quindi è applicabile alla storia delle scoperte visive nell’arte. In che cosa consiste lo schema a correzione? Nel ricostruire le immagini proiettando sulla realtà schemi percettivi altamente selettivi che andremo a variare e correggere secondo un processo di mutuo e progressivo aggiustamento tra i dati sensoriali e gli schemi utilizzati nell’organizzarli. Tra il guardare e il dipingere si instaurerà un modello relazionale. Nonostante tutto però Gombrich crede in qualche grado o forma di oggettività e usa lo schema per raggiungerla. Sia Goodmann che Gombrich usano: relativismo della visione → schemi percettuali e relativismo della rappresentazione → convenzioni linguistiche. Lo studioso Pope Mary Osborne accomuna Goodmann e Gombrich i quali trattano la rappresentazione pittorica allo stesso modo in cui si studia la semantica del linguaggio. Rudolf Arnheim dice che l’opera di Gombrich è un tentativo di svalutare il contributo dell’osservazione percettiva. Per lui Gombrich pensa che il mondo dei sensi sia un impenetrabile rompicapo. In verità, Gombrich pensa che il mondo esperienziale sia si un rompicapo ma decifrabile. Ancora; J.W. Manns rivaluta la “relazione di similarità”: i nostri occhi sono quindi impegnati a leggere rassomiglianze e non simboli. Goodmann ribatte che la similarità è relativa, variabile, culturalmente dipendente e che perciò non può essere un fermo, invariante criterio di realismo. Ancora; per Gombrich l’identità dev’essere ancorata a una relazione costante con gli elementi circostanti, perchè l’uomo e l’animale hanno la facoltà di riconoscere ciò che rimane identico attraverso le variazioni. Potremmo quindi dire che l’informazione che ci raggiunge dal mondo visuale è così complessa che nessun quadro la potrà mai contenere tutta e tuttavia sostenere legittimamente che un certo dipinto è una veduta corretta di un certo luogo in quanto da esso non è derivabile alcuna falsa informazione. Gombrich sostiene che il contenuto informazionale è indipendente tanto dagli schemi visivi che dalle convenzioni pittoriche e dai linguaggi, e che la relazione che intercorre tra la rappresentazione (verbale o pittorica) e il suo oggetto va trattata come una relazione di traduzione (come da un’altra lingua). Lo studioso Yehoshua Bar-Hillel ci avverte di un rischio insito nella teoria dell’informazione, cioè quello – per esempio – di confondersi su 2 concetti a quella teoria pertinenti: quello statistico e quello semantico. Nel 1° caso, diversamente che nel 2°, trascuriamo totalmente il significato di ciò che viene comunicato. Ma in Gombrich (e non solo in lui) mancano un chiarimento della natura e della funzione dei principi di correlazione che presiedono alla lettura e all’interpretazione di una qualsiasi raffigurazione. Mancando questa, infatti, potremmo rinvenire in un’opera una quantità di informazione su y, facendo maliziosamente intervenire principi di correlazione opportunamente scelti. M. Black sostiene perciò che comunque si giunga a identificare o descrivere il contenuto effettivo di un dipinto la risposta sarà relativa a un corpo di conoscenza postulato. In definitiva la teoria della coerenza di Gombrich non è valida perché è insufficiente il criterio dell’equivalenza informazionale, attraverso il quale si doveva superare la teoria corrispondentistica della rappresentazione.

Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards affermano 2 usi distinti delle parole: simbolico (conoscitivo) ed emotivo (evocativo o espressivo). Mantengono come valida la distinzione anche quando i 2 usi ricorrono di solito insieme. L’uso simbolico delle parole persegue scopi assertivi (registriamo o comunichiamo dei riferimenti). L’uso emotivo, invece, punta ad esprimere o provocare certi tipi di atteggiamenti. Se si intende distinguere l’attività estetica da quella scientifica bisogna presumere caratteristiche specifiche dell’attività estetica. L’attività estetica diversamente dalla scienza non ha fini pratici, mira al piacere immediato (sentire, emozione) mentre la scienza al conoscere. Nella scienza poi, diversamente che nell’arte, la verità gioca un ruolo chiave. Per Goodmann il problema risiede qui: la caratterizzazione dell’attività estetica come proiezione della dicotomia tra cognitivo ed emotivo. Le ragioni per seguire una costruzione diversa da questa vi sono. Ma ci si scontra con un altro ordine di problemi: scienza ed arte soffrono d’una caratterizzazione grossolana. La ricerca scientifica, infatti, non ha solo fini pratici, così come l’attività estetica non è mossa solo da preoccupazioni edonistiche. Inoltre, la nozione di verità gioca un ruolo importante nella scienza nel senso che per una descrizione scientifica la sua verità è una caratteristica, ma al più necessaria mentre altri fattori hanno un peso non minore (semplicità, articolatezza, fecondità). Anche da un punto di vista filosofico è stato impossibile distinguere logicamente una classe di proprietà estetiche da una di proprietà non estetiche. In definitiva Goodmann definisce l’esperienza estetica come dinamica e non statica. In essa è necessario operare discriminazioni delicate e scorgere relazioni sottili, identificare sistemi simbolici e caratteri propri di questi sistemi. Per Goodmann, rappresentazione ed espressione sono trattabili in termini di denotazione. Essa da delle informazioni che sono la sintesi di 3 piani analitici: la rappresentazione (mare, colline); il possedere certe proprietà (es. colore grigio); sull’espressione di certi sentimenti (tristezza, gioia….). Un’opera d’arte rappresenta qualcosa perché vi si riferisce, denota qualcosa. Ma questa – relativamente semplice – congettura teorica di Goodmann si complica. Il soggetto di un’opera d’arte potrebbe benissimo non esistere o esser stato talmente integrato o semplificato o variato nei dettagli da non essere in alcun modo riconoscibile e da non corrispondere più alla rappresentazione che ne è stata data. L’occhio dell’artista interpreta e ciò comporta sempre accentuazioni, selezioni, omissioni. Cioè non è detto che in una rappresentazione non entri qualcosa di diverso e genericamente riconducibile alla categoria universale di ciò che si sta rappresentando: rappresentare colline non significa necessariamente rappresentare quelle colline ma magari lasciare qualcosa di indeterminato o farci entrare qualcosa di differente. Si parla, quindi, del riferirsi ad un soggetto reale e generale.

Generalmente i pittori guardano il mondo anche attraverso gli occhi dei pittori che li hanno preceduti e che lo ritraggono avendo di fronte gli altri modi in cui è già stato ritratto. Secondo Goodmann una tela dipinta non afferra l’oggetto come esso è ma questo viene costantemente ricostruito a partire dai modi tradizionali di costruirlo. Attraverso questo meccanismo dalla semplicità relativa della relazione di denotazione si passa alla complessità, al livello di costruzione del predicato “raffigurazione di…” con la differenza che, invece del mondo, ad essere giudici della bontà delle raffigurazioni dell’artista, saranno le scelte culturali che questi vive consapevolmente. Ancora, un quadro denota ciò che rappresenta e un predicato denota ciò a cui si applica. Il fatto che un certo quadro o un certo predicato possiedano determinate proprietà dipende da quali predicati li denotano. Un quadro denota colline ed è grigio, in quanto il predicato grigio si applica al quadro. La rappresentazione e la descrizione correlano un simbolo alle cose a cui esso si applica (il quadro alle colline). L’esemplificazione (altro concetto Goodmaniano) correla il simbolo a un predicato che lo denota e a cui il simbolo si riferisce (il pezzo di stoffa rosso al predicato “rosso”) e quindi indirettamente alle cose che si trovano nella “sfera” di quel predicato (tutte le cose rosse). L’esemplificazione è metaforica quando nel correlare un simbolo a un predicato che lo denota e a cui il simbolo si riferisce (il quadro al colore grigio) lo correla non solo alle cose che si trovano nella “sfera” letterale di quel predicato (gli oggetti grigi) ma indirettamente anche a quelle che si trovano nella sua sfera metaforica (gli oggetti tristi). Per Goodmann espressione è esemplificazione metaforica.

Metafora è proiezione di predicati, di sistemi categoriali. L’individuazione di un criterio di proiettabilità per predicati è il cuore del “problema dell’induzione”.

Dobbiamo distinguere tra metaforico e letterale: noi non diamo mai una descrizione letterale dell’opera d’arte. Le proprietà che un simbolo esprime sono quelle da esso acquisite tramite una nostra operazione di ristrutturazione dell’intero quadro linguistico e concettuale: perciò una cosa può esprimere solo ciò che le appartiene ma che non le apparteneva originariamente.

Riassumendo e sintetizzando: la critica d’arte su di un quadro consiste in: stile, costruzione dell’immagine, tecniche particolari di rappresentazione, ideali di proporzione, interpretazioni di atteggiamenti, rimandi di carattere storico e filosofico alle diverse modalità di presenza del mito nella letteratura e nelle arti figurative del tempo. In definitiva, la tesi di Goodmann è questa: le arti non sono inferiori alle scienze come strumenti di scoperta, di creazione, di comprensione e la filosofia dell’arte è parte integrante dell’epistemologia. Questo comporta una radicale ridefinizione del conoscere. Il conoscere non può identificarsi esclusivamente con la ricerca della verità e tramite essa “col concettuale, il discorsivo, il linguistico”. Quindi, una scoperta equivarrà, piuttosto, alla conclusione felice di un complicato processo di adattamento che passa attraverso il riconoscimento o la costruzione di concetti e modelli e durante il quale si stabiliscono abitudini nuove o si rompono quelle consolidate per far fronte a problemi imprevisti: un processo di adattamento che lavora su un materiale fluido che viene via via riconcepito, riorganizzato, inventato. Goodmann da una definizione di cognitivo che includa tutti gli aspetti del conoscere e del comprendere, dalla discriminazione percettivale attraverso il riconoscimento di patterns e l’insight emotivo sino all’inferenza logica.

** Se puoi sostenere il mio lavoro, comprami un libro **

Be the first to comment on "Ernst Gombrich, una vita per la critica."

Leave a comment