Firenze è un comune italiano, in un periodo di grandi trasformazioni, in cui la Politica era dominante. Città pervasa da crisi, da guerre civili, in cui la passione civile è un tutt’uno con la passione culturale e col confronto teologico. I domenicani in concorrenza coi francescani. Firenze è una città in guerra permanente che conosce la decadenza di una minima aristocrazia cui apparteneva Dante e che veniva assaltata dalle classi nuove, come la borghesia che sarà l’anima della grande Firenze del Tre-Quattrocento. Le nuove classi borghesi sostituiscono gradualmente l’aristocrazia nella gestione del potere.
Bonifacio VII (Unum Sanctum) prova ancora a definire la superiorità del popolo sull’impero. Arrigo VII rappresenta l’ultimo e inutile tentativo di riaffermare la superiorità dell’impero sui comuni. Aspra lotta fra sostenitori dell’impero (ghibellini) e del papato (guelfi).
La Divina Commedia ha anche come sfondo questa lotta. L’esperienza in Dante è quella pure della lotta tra la classe cui apparteneva che andava via via modellandosi e i nuovi “lupi”, gli emergenti avidi di denaro. Nel bestiario dantesco il lupo è la bestia più odiosa perché simbolo di avidità. Per Dante l’avidità si incarnava nella borghesia ascendente che aveva il fiorino come Dio.
La Commedia è cosparsa di invettive contro questa Firenze che diventa fiorino. In queste città, politicamente contrastate, hanno luogo anche i dibattiti teologici e filosofici dell’epoca. Firenze non è la capitale in questo confronto. La capitale, nel confronto tra interpretazione averroistica (di Aristotele) e tomistica (sempre Aristotele) è Parigi. Firenze però è uno dei luoghi di eccellenza di questo confronto, sul piano teologico (scuola agostiniana, Convento di S. Spirito; la domenicana, Convento di S. Maria Novella; la francescana, S. Croce) e filosofico pure con gli averroisti (Guido Cavalcanti, averroista dichiarato a Firenze).
Con Beatrice nel periodo della sua maturazione formativa Dante figura un simbolo, figura l’allegoria. Beatrice o Virgilio si figurano, si fanno carne e sangue, ci vengono incontro problematicamente. La Vita nova è un libro di iniziazione, di passaggio dalla gioventù alla maturità. Dante si libera dal passato, dalla mondanità e cerca nuove strade: dal mondano e immanente all’”assemprarsi”.
Nel Convivio: scienza, teologia e filosofia regine tutte. Il volgare, nel Convivio, capace di parlare di filosofia e teologia.
Il De Vulgari, scritto in latino per illustrare ai dotti la bellezza e le virtù del volgare. I poeti sono i prediletti da Dio perché il linguaggio poetico meglio rappresenta la verità religiosa (vedi la Bibbia). La poesia è espressione dettata da Dio, come l’espressione biblica. Per Tommaso, invece, la poesia è la parte più infima dell’espressione. De Monarchia: qui Dante condanna aspramente il potere temporale della Chiesa. La Chiesa deve spogliarsi dei propri beni per tornare a svolgere il suo compito che è quello di condurci alla destinazione ultima, quella sovrasensibile. Il compito della Chiesa è quello di educarci, indicandoci la nostra destinazione sovrasensibile, in totale povertà. Dante condanna la Chiesa proprietaria che in quanto tale non può indicarci la destinazione sovrasensibile: non si possono seguire due padroni. Il Santo di Dante è Francesco. È chiaro nella Commedia che non vi è equipollenza tra elogio di Domenico del francescano Bonaventura e l’elogio di Francesco in bocca al domenicano Tommaso. Francesco lo ritroviamo nell’Empireo dove non ritroviamo Domenico. Francesco è sposo della povertà. Al culmine del Paradiso abbiamo l’invettiva politica di Pietro. Questo luogo di miseria in cui viviamo non è una prigione: ci è dato lume per liberarcene. Il dono della libertà è immediato (non mediato). Dio infonde questo dono nella nostra anima: per Dante è sommo dono. Non la vita, ma la libertà. La vita è determinata anche da cause seconde, mentre la libertà è immediata. Anche se, a differenza nostra che crediamo la libertà sia nostra, qui è un dono di Dio, ciò che ci rende divini. Grazie a questa, possiamo liberarci dalla prigione dove stanno le “pecore matte”, i “botoli”, i “lupi”. Non siamo necessitati di abitare con loro. è il tema della Commedia. È il tema di una conversione. Ridonare la libertà che ci è stata donata. I princìpi regolatori.
Tre e dieci sono i numeri della Commedia che alludono al mistero di Dio e alla Trinità. Tre cantiche divise in 33 canti più un Proemio: totale 100 che è 10 moltiplicato per sé stesso. L’Inferno è suddiviso in 9 cerchi più un vestibolo; il Purgatorio è composto da 7 cornici, un antipurgatorio e il Paradiso terrestre; il Paradiso è distinto in 9 cieli più l’Empireo. Nel mondo (la selva oscura) noi siamo condizionati, dipendenti, servi. Ma ci è data la possibilità di raggiungere “perfetta libertà”. Siamo pellegrini, non intelletti archetipi che possono “ficcare lo sguardo” immediatamente nel divino consiglio. Occorre pellegrinare, viaggio, fatica, sofferenza. Tuttavia, libero è colui che libera: libertà è nome agentis, non è un’astrazione. La libertà si mostra liberando. È quello che fa Dante con la sua opera. Con la Commedia si rivolge agli asserviti dalle false istituzioni religiose e politiche.
Libertà e liberare: ma perché il libero dovrebbe essere così chiamato a liberare? Perché Dante, chiamato a questo viaggio verso la libertà, un viaggio chiamato Grazia perché sono le tre donne che si rivolgono a Virgilio (non è la sapienza umana da sola che ascoltato Dante si sarebbe precipitata, nella persona di Virgilio, a salvarlo). La sapienza puramente umana non ama. Maria, Beatrice, Lucia ascoltano il pianto di Dante e ordinano a Virgilio di fargli da guida. Virgilio è mosso da Amore (“amor che move il cielo”). Quindi: libertà, amore, liberare. La concezione dell’amore in Dante: l’amore vince tutto, vince la stessa “divina voluntate”. Questo Dante lo estremizza da Bernardo che non a caso è l’ultima guida (l’ultima non è Beatrice); è l’amore mistico rappresentante della più pura mistica d’amore.
Virgilio (sapienza), Beatrice (teologia operante), Bernardo (guida mistica per quel “inluiarsi”, “inviarsi” finale, dove Dante si “inventra” nel sommo mistero trinitario.
Come si vede che l’amore vince anche la volontà divina? Nel fatto che nel Paradiso c’è anche chi non dovrebbe esserci: Traiano. Traiano che si sarebbe convertito leggendo Virgilio è in Paradiso, ma Virgilio no. Come mai? Perché Traiano non è solo il sapiente, ma anche il buon imperatore. Dio si innamora di Traiano per le sue virtù.
Il pellegrinaggio, tuttavia, non finisce nel Paradiso, ma con la Resurrezione quando l’anima si ricongiungerà al proprio corpo di luce. L’incontro tra profetismo politico e religioso è nel Paradiso, nel cielo dei sapienti nell’incontro tra domenicani e francescani, ordini in dura competizione fra loro che in Paradiso s’incontrano. Ma non s’incontrano in termini di facile pacificazione. Emergono dall’incontro Tommaso e Francesco: il primo è il più sapiente, il secondo è l’oriente, la povertà, la speranza della Chiesa. Nella visione di Dio le nostre miserie non hanno senso: siamo uniti nella distinzione.
Ma l’ultimo della corona di Tommaso è Sigieri di Brabante; gli ultimi delle corone sono i grandi nemici di Tommaso e Bonaventura. E al seguito di Bonaventura, l’eretico per eccellenza, Gioachino da Fiore. Troviamo Tommaso e Bonaventura che esaltano nella loro corona due eresie. La morale è: attenti noi pecore matte a giudicare, dobbiamo sapere che il giudizio non spetta a noi; noi non siamo i giudici ultimi. Non è detto che il nostro giudizio coincida con il giudizio.
L’esperienza che vuole avere Dante, per la quale chiede sempre spiegazioni a Virgilio e a Beatrice, è esperienza di amore ordinato. Paolo e Francesca sono l’immagine dell’amore inordinato (anche quello di Ulisse). Amore che è passione, ma che non sa, mentre amore è essenzialmente amore di sapere. Quello di Ulisse è pure inordinato perché è per conoscere e basta.