Considerazioni sulle figure di Dante, Petrarca e Cavalcanti.

Considerazioni sulle figure di Dante, Petrarca e Cavalcanti
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di Sergio Mauri

Le corporazioni erano organismi, associazioni che organizzavano l’attività economica della città, raccogliendo attorno a sé arti e mestieri della stessa. Dante apparteneva alla corporazione dei Medici Speziali. Faceva – quindi – pienamente parte della vita cittadina. Egli si sente parte della città. Vediamo ora di accennare alla catena evolutiva della politica italiana, tra l’ XI e il XIV secolo, nel basso medioevo. Essa vede, la nascita dei Comuni che si richiamano al diritto romano, ovvero alla condizione di indipendenza delle città dall’imperatore, nella fattispecie dall’imperatore di Germania. Perciò, spirito di indipendenza ed autonomia. I Comuni – per esempio – non sono disposti a pagare le tasse, fare le cosiddette “regalie” all’imperatore. I Comuni esprimono la vita della città, una vita non prevista dal sistema feudale. Il sistema feudale dell’età medioevale prevede una serie di servizi, tasse e corvée, legati al mondo della campagna, al grande latifondo. La città mercanteggia, vende e compra, fa attività finanziarie. La città è ricca e produttiva e non dipende dalla ricchezza della campagna, almeno non direttamente. Coloro che fanno parte di una città non si sentono obbligati rispetto al sistema feudale, quindi all’imperatore che esprime un mondo arcaico, precedente a questa attività economica mercantile cittadina. Quindi, i Comuni inalberano il vessillo dell’indipendenza. Entrano in conflitto con l’autorità dell’Impero. Di questo spirito di indipendenza Dante fa pienamente parte. Nella lotta politica dei Comuni Dante fa parte dei guelfi (dal tedesco Welfen), nome di una nobile famiglia bavarese del XIII° secolo, contrapposti ai ghibellini (dal tedesco Wibelingen, nome di un castello della Franconia). I ghibellini sono a favore dell’imperatore, mentre i guelfi guardano con favore al papato, alla Chiesa. Quindi Dante fa parte di quel gruppo politico che guarda con simpatia al papato, per sottrarre la città alle influenze imperiali, viste come ostili. Ci si appoggia, allora, al popolo per avere una forza politica alle spalle al fine di sottrarsi alle influenze imperiali. Tuttavia, dentro alla compagine guelfa che governa Firenze in quel torno di tempo, ci si divide in 2 gruppi: la famiglia dei Donati e quella dei Cerchi. Sono famiglie che capeggiano 2 fazioni all’interno dei guelfi, situazione molto simile alle correnti politiche di oggi. Tra i guelfi abbiamo i bianchi e i neri. I neri sono molto filo-papali; i bianchi vogliono comunque un’autonomia della città dall’influenza del Papa. Quindi i bianchi vogliono un’autonomia dall’imperatore, ma non per questo intendono assoggettarsi totalmente alla volontà del Papa. Dante – quindi – sostiene una certa autonomia anche rispetto al controllo guelfo. Dante infatti dirà poi di sé stesso: “ghibellin fuggiasco”, nonostante fosse un guelfo bianco.

Per i guelfi neri – infatti – egli era un ghibellino. Di fatto Dante era un moderato tra i guelfi e non voleva dare l’anima al Papa.

Dante è un’espressione della nobile arte della politica, sente profondamente la sua parte politica e partecipa attivamente alla lotta politica del suo tempo. A causa di ciò subirà l’esilio e verrà accusato di “baratteria”, quella che oggi si chiama concussione.

Dante si reca a Roma, nel 1300, in rappresentanza di certe istanze ed esigenze che Firenze pone al Papato. Va a fare un’ambasceria, sta dentro alla politica. Quando torna si ferma a Siena, città ghibellina e acerrima nemica di Firenze. A Siena viene raggiunto dall’ingiunzione di Firenze a rientrare subito in città e di rispondere dell’accusa di “baratteria”. Dante si rifiuta di tornare a Firenze. Da quel momento non tornerà mai più. In seguito la città gli chiederà di tornare con la garanzia di non subire la carcerazione, ma semplicemente una pena pecuniaria ed ammettendo di aver commesso il reato. Si cerca di facilitare il suo rientro a Firenze, visto il prestigio di cui gode. Ma Dante si rifiuta di tornare. Morirà e sarà sepolto a Ravenna.

È un uomo di carattere che sente la vita politica, non è un “qualunquista”. Dante aveva fatto una scelta, stava con i meno peggio, cercava una soluzione. I primi anni del suo esilio tenta anche di ordire, con i guelfi bianchi, un colpo di mano per tornare a Firenze. Tiene dei contatti, carteggi, lettere, ma nel giro di 2-3 anni lascia perdere, si sente stanco. Tuttavia l’esilio gli brucia, tiene ancora dei contatti con i fuoriusciti, con gli esiliati, con i condannati in contumacia. Nella sfortunata condizione dell’esilio, tuttavia, Dante si mette a studiare, scrive, lo studio diventa un suo motivo di vita. Gira: va dai Malaspina, dai Polenta, tiene delle prolusioni, visto che gode già di un certo prestigio. Dante, però, non si mette al servizio di nessuno, in un certo senso è fuori sincrono. Questa sua condizione di cattività, di infelicità personale lo fa scrivere, studiare. Compone ilo Convivio, la De Vulgari Eloquentia, scrive bellissime lettere e poi si impegna nella Commedia.

Gran parte della Commedia che poi Boccaccio chiamerà Divina, viene scritta durante l’esilio. Per Dante questa condizione è una sfida, ma per noi è anche una fortuna. Dante è l’uomo che sente la città, i suoi valori politici e civili che non sono barattabili con niente. Egli è l’uomo che sente l’impegno civile.

Petrarca no. Petrarca è cittadino del mondo. Nasce in un piccolo paese fuori Perugia, in Umbria. Poi vive in Francia, ad Avignone, a Bologna, poi torna in Francia, poi tornerà di nuovo in Italia, andrà a Genova, poi sui Colli Euganei.

È uno che vive soltanto della sua arte, tutti lo ammirano moltissimo, lui vive del suo prestigio culturale e la politica diventa arte, non è poi così urgente. Non è che Petrarca non senta il problema politico, lo sente molto con il Papato e la Chiesa in decadenza. La Chiesa che ha 2 Papi; c’è infatti una sede della cristianità anche ad Avignone, in Francia, abbiamo Cola di Rienzo che ad un certo punto tenta una rivolta al fine di restaurare il Comune nella città di Roma straziata dai conflitti tra Papi e baroni. Petrarca aderisce a queste iniziative che – tuttavia – sono lampi, sono estemporanee.

Petrarca vi aderisce perché ha un suo grande disegno restaurativo in mente. È un latinista raffinatissimo, studia l’antica Roma, e quindi sogna un ritorno all’antica Roma imperiale e Cola di Rienzo che vuole rifondare la città capitale fa nascere in Petrarca delle suggestioni intellettuali, più che politiche. Petrarca ha delle simpatie ed aderisce in certi momenti a certi progetti politici perché ha in testa il ritorno alla bellezza del mondo classico. Quindi Petrarca è un uomo che vive del suo prestigio intellettuale, ha degli incarichi politici importanti, si muove politicamente, è uomo coltissimo che vive di cultura.

La politica è ancillare, al servizio, e lui è un intellettuale cortigiano, che vive a corte. È perciò espressione di una cultura che vive dentro il palazzo, al servizio di una Signoria, al servizio di un potente. Cosa che gli intellettuali italiani faranno lungo tutto il Rinascimento.

Dante no. Dante stà alle nostre origini, quando il Comune non è ancora tramontato. Il Comune vive le sue contraddizioni, ma ha una vita politica partecipata, viva. Gli appartenenti alle 2 famiglie contrapposte dei Cerchi e dei Donati si affrontano e si picchiano per strada.

Ad un certo punto, nel 1300, Dante viene eletto uno dei 7 priori per il bimestre 15 giugno – 15 agosto 1300, ed insieme ai suoi amici emette una ingiunzione per pacificare gli animi dei fiorentini, tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati. Pure il suo amico Cavalcanti è colpito dall’esilio conseguente l’ingiunzione durante il priorato di Dante. Viene mandato a Nord della Toscana, in Garfagnana, una zona malarica. Lì scrive delle ballate. La sua condizione di esilio, che lo fa anche ammalare, in qualche modo lo rende prolifico nello scrivere. Guido è uno stilnovista dolente e nostalgico. È innamorato ed esiliato allo stesso momento. Crea un genere particolare, quello della Pasturella. Si innamora, platonicamente, della semplice pastorella, della donna più umile e semplice che vive delle bellissime canzoni dedicate alla semplice pastorella.

Questo genere che può essere definito bucolico, cioè legato alla vita semplice, alla vita degli umili, dei poveri che vivono candidamente i sentimenti. Sarà, questo genere, uno dei filoni dello stilnovismo. Guido Cavalcanti: notiamo come la sua vita si intrecci con la politica, l’amicizia e l’esilio, l’allontanamento e ancora l’amicizia, ma anche con l’imparzialità dell’amico. Condannare l’amico Guido, un atto senza sospetto alcuno di favoritismi. Si tratta di un intreccio molto complesso di politica, di vita cittadina, di amicizia. E anche dell’amicizia nel parlare dell’amore. Dante non è un qualunquista, uno che se ne frega. Non è uno che si indigna con la politica e basta, è uno che ci sta dentro finché può con la sua dignità e il suo orgoglio in nome della politica e non dell’antipolitica.

Petrarca no. Petrarca è un’altra persona, un’altra vita, un altro tessuto, un altro percorso di vita, un’altra esperienza dove si configura, si antivede l’idea dell’intellettuale cortigiano, che sarà la tipica espressione di uno dei temi della letteratura italiana, dell’intellettuale nel suo rapporto col potere. Il rapporto tra intellettuale e potere è uno dei più complessi, insidiosi e difficili, perché l’intellettuale si mette al servizio del potere o dovrebbe forse essere il contrario? E dar corso alla libera scelta, alla libera ricerca?

La sofferenza provata da molti intellettuali italiani dipende dal loro rapporto col potere. E dover, con ingegno e capacità, creare, costruire e capire nonostante il condizionamento derivato dal potere.

Quindi Dante e Petrarca rappresentano nell’origine della nostra letteratura quel rapporto che va al di là della loro biografia personale, rappresentano quel rapporto che è il rapporto tra il letterato, l’intellettuale e il potere e la comunità alla quale appartengono.

Il Comune come Dante l’ha conosciuto, con i suoi casini intrinseci, le sue divisioni politiche, ad un certo punto finisce. Succede che si chiameranno delle persone da fuori le entità comunali, in grado di mettere ordine in quel casino. Qualcuno che non abbia interessi in città, qualcuno che sia estraneo, qualcuno che abbia polso e autorità. Un podestà. Lo si tiene in carica non più di 6 mesi, così non ha tempo di farsi degli amici. Ma col tempo la cosa cambia, 6 mesi son pochi e allora questa figura viene riconfermata, i propositi iniziali – quindi – cambiano. Da 6 mesi si passa a 2 anni. Allora questi Comuni diventano Signorie, in cui i Signori hanno degli incarichi a vita, si creano i loro appoggi e poi ad un certo punto sono così potenti che trattano anche con le grandi autorità esterne come l’imperatore. L’imperatore li nomina Signori, dà loro un titolo nobiliare per comprarli alla causa imperiale. Essi rappresentano la città presso l’imperatore. I Visconti, gli Sforza, i Medici sono esattamente quel tipo di Signorie. Maturano un potere di tipo aristocratico che si preoccupano di lasciare in eredità ai loro figli, titoli nobiliari inclusi.

Quindi, semplificando, andiamo dal Comune indipendente al potere imperiale i cui primi rappresentanti sono i Consoli (cariche elettive derivate dalla romanità, detti anche Capitani del Popolo); passiamo poi ai Podestà e poi ai Signori. Le città diventano quelle che si allargano nel territorio, cioè nel Contado, Città-Stato. Hanno quindi mire imperialistiche, si contraddistinguono per continue guerre le une contro le altre e per i traffici che fra di esse intercorrono.

Una cosa che non avviene nel resto d’Europa, in Germania soprattutto. Qui le città sono chiuse dalle mura e non hanno espansione nel territorio. In Italia invece succede che le città si allargano nel territorio. Non solo; succede anche che i Signori feudali si inurbano e fanno politica. Gran parte di essi sono aristocratici, Signori feudali che vivono in città.

Quindi i Signori si inurbano, la città si preoccupa di allargarsi al contado e di controllarlo, si formano delle Città-Stato che nel resto d’Europa non abbiamo. “L’aria di città rende liberi” si usava dire. Il contadino che entra nella cinta muraria della città diviene libero dai servizi e dalle corvée del feudalesimo. La città ti libera, basta entrarci e non sei più controllato, soggetto ai vincoli feudali che ci sono fuori. Le città impongono le derrate alimentari, i regimi di approvvigionamento, le vie di comunicazione. Spesso la città è ancora più prepotente del Signore feudale. Tuttavia, la differenza tra territorio e circondario di città non sussiste, come invece nel resto d’Europa.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger e studioso di storia, filosofia e argomenti correlati. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Hammerle Editori nel 2014.
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