Van Gogh come esempio dello scontro tra individuo e società al tempo della modernità.

Vincent_van_Gogh_photo
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Oggi voglio ricordare il grande pittore, re degli incompresi e dei sottovalutati, nel 166° anniversario della sua nascita. La sua storia è paradigmatica del rapporto fra individuo e collettività ai tempi dello sviluppo capitalistico che, per la nostra cultura di riferimento è, al tempo stesso, la modernità. Un rapporto, è bene ricordarlo, sempre in bilico tra esclusione e disciplinamento, soggezione e ribellione, egoismo e slancio altruistico, violenza  e bisogno di giustizia e fratellanza. Quanto a lungo può una società come la nostra, fondata sull’interesse di pochi e sulla contrapposizione di tutti, ma che tuttavia si autorappresenta come la migliore possibile, ignorare il richiamo dei propri figli migliori? Tanto, tanto a lungo, salvo poi cannibalizzarne il corpo e l’anima per autoriprodursi per mezzo del meccanismo infernale del profitto. 

Il 28 luglio 1890 Vincent Van Gogh si tirò un colpo di rivoltella, spirando due giorni dopo ad Auvers dove veniva sepolto. Così finiva la vita di un uomo che aveva dato tutto sé stesso all’arte pittorica, tentando di esprimere la gioia della vita e l’amore per gli uomini con i suoi gialli, gli aranci e quegli insuperabili azzurri che rimarranno per sempre così tipicamente suoi. Io non mi sono mai sentito così generoso col genere umano come lo fu Vincent, più uomo incompreso che genio e, tuttavia, mi pongo – attraverso la sua storia – un interrogativo eminentemente umano: fin dove può e deve arrivare consapevolmente un artista nei confronti del contesto sociale del suo tempo e della posterità, con quale livello di responsabilità deve e può l’artista trattare il prodotto della sua arte? Ancora; quali limiti porre al proprio ruolo pubblico? In particolare, come considerare, giudicare, valutare il volontario lascito artistico di un autore, soprattutto se di primaria grandezza?

Sono tutte questioni di merito, particolarmente fondate per quanto riguarda l’uomo Van Gogh, poiché egli lascia di proposito all’attenzione di un mondo che lo aveva ostinatamente ignorato e maltrattato, le testimonianza del suo amore per esso, riproposto con uguale e contraria ostinazione lungo tutta la sua vita sfortunata.  E’  fin troppo facile vedere una conferma della legge della violenza del mondo e dell’uomo, del homo homini lupus, nella vicenda di Van Gogh, ma è insolito porsi il problema della responsabilità della propria opera e del suo riscontro quando si è in vita. Appena morto la leggenda s’impadronisce della vita del pittore, o dell’artista, nella generale colpevole dimenticanza che (tutti) coloro che lo celebrano lo avevano lasciato impazzire e morire di solitudine. Ora si può speculare sulla sua vita, la sua morte e sulla sua opera. Non sapremo mai se quest’ultima fosse stata il frutto connaturato della sua pazzia, ed io in particolare ne dubiterei fortemente, ma ciò è stato costantemente e sistematicamente suggerito da cultori interessati e macabri.

Uno dei punti focali della brutalità del mondo verso Vincent è l’episodio del rifiuto subito dall’amata, in quel di Parigi, alla sua proposta di matrimonio. Non che ci fosse stata una relazione, no, la figlia del locandiere dove il pittore alloggiava, non ne voleva sapere di Vincent. Figurarsi! La propensione dell’artista verso un mondo che proprio non lo merita non finisce qui. La ragazza non ne vuole nemmeno parlare di prendere in marito un pittore.

Egli tuttavia, continua imperterrito ad amare il mondo, quando chiunque dotato di normali attitudini intellettuali ed emotive avrebbe cambiato idea. Riavvolgiamo, allora, il nastro della sua vita; il 1877 vede Van Gogh commesso libraio a Dordrecht, per mere necessità economiche, come prassi costante della sua vita. Abbandona pochi mesi dopo il lavoro di commesso per prepararsi agli studi universitari e per il seminario teologico. Ma i suoi trasporti mistici lo spingono a cercare una maggiore comunione col genere umano. Parte, quindi, volontario e a proprie spese per il servizio religioso nel Borinage, tra i minatori di carbone di Wearmes, dopo una breve parentesi alla scuola di evangelizzazione di Bruxelles, dove era stato respinto. Van Gogh vive con i minatori, carne da macello sfruttata per aumentare il capitale di pochi, poverissimo come loro, privandosi del necessario, prodigandosi fino allo stremo delle forze. Eppure nel luglio del 1879 l’incarico di evangelizzatore non gli viene confermato.

Privo di mezzi economici che non fossero quelli del fratello che cercava in tutti i modi di aiutarlo, Vincent fa letteralmente la fame. Digiuna per non rinunciare a dipingere. Tuttavia, la società che lo circonda lo lascia deperire ed impazzire. Scrive Van Gogh:

Sarebbe bene che la pittura fosse pagata dalla società e non lasciata alle spese dell’artista. Ma, ecco, bisogna tacere ancora perché nessuno ti obbliga a lavorare, l’indifferenza per la pittura è troppo diffusa.

L’atteggiamento che un artista deve tenere verso il mondo che lo circonda deve essere irremovibile e, secondo me, prevede l’attuazione di una sorta di codice militare. Senza lasciare spazio ad alcun cinismo e rifiutando le cosiddette regole morali dominanti che lo alimentano, direi che l’attuazione del codice prevede la distruzione di tutte le opere di un artista privo di considerazione da parte dei suoi contemporanei. La vita continua comunque e per un Van Gogh sconosciuto ce n’è un altro conosciuto e riconosciuto in vita: è matematico. Magari al posto di un incompreso, bistrattatissimo, infamato Van Gogh c’è un Gaugin che produce il doppio e modifica per l’ennesima volta la tipologia di produzione.

Van Gogh vendette un solo quadro e fu negli ultimi giorni della sua vita. Una sorta di elemosina, l’ultima umiliazione, probabilmente. Il giorno del suicidio portava con sé una lettera al fratello, dov’era annotato:

per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita e vi ho perduto metà della ragione…

** Se puoi sostenere il mio lavoro, comprami un libro **

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