Sulla crisi economica in atto.

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Dagli epifenomeni della crisi economica (deficit di bilancio, incidenza del debito pubblico, bilancia commerciale…) è bene virare sugli aspetti di fondo, determinanti. Poiché i secondi, al contrario dei primi, esistono indipendentemente dalla presenza di quelli. Allo stesso modo in cui sarebbe impossibile immaginare un effetto senza una qualche causa. Perciò l’indagine deve svolgersi sul piano della struttura produttiva.

Crisi di sovrapproduzione o del saggio di profitto? La vulgata comune, anzi mainstream, usa parlare molto di crisi da sovrapproduzione. La legge generale e tendenziale della caduta del saggio di profitto, innesca, rende efficace il fenomeno della sovrapproduzione.

In linea generale è il livello del capitale costante, in tendenziale crescita rispetto a quello variabile, a determinare una caduta del saggio di profitto e ad inficiare il processo di valorizzazione del capitale stesso. La conseguenza è una continua svalorizzazione e svalutazione del capitale complessivo ( di quello costante e, con tendenza al depauperamento, di quello variabile).

L’intervento dello Stato, in realtà, anche se puntella la struttura sociale del capitale, partecipa a questa svalorizzazione e svalutazione, immettendo capitale fuori dalla stretta logica del profitto. Lo Stato, tuttavia, come principale artefice del mantenimento della sperequazione sociale fra le classi. Le politiche di Welfare come strumento di consenso, controllo, imposizione dall’alto delle logiche di conservazione dello Stato capitalistico moderno.

Sul profitto: non é un caso che si registrino i più alti indici della sua realizzazione proprio dove il processo di industrializzazione é ancora in atto e di là da essere completato. Valvola di sfogo della crisi internazionale e ulteriore motivo di impoverimento del capitalismo occidentale e della sua classe lavoratrice.

Il problema fondamentale del capitale occidentale, quindi, ha a che fare con la sua struttura produttiva, con la sua incidenza tecnologica e la conseguente posizione sul mercato internazionale. Esso sconta una minore efficacia a generare profitti, poiché meno dotato di capitale variabile a basso costo, con contemporanea presenza di un’enorme massa di capitale fisso svalutato, riuscendo a sopperire a questa difficoltà grazie alla sua presenza quasi monopolistica a livello globale, rastrellando plusvalore a livello planetario ed impedendo a nuovi attori di immettersi sul mercato. Ovviamente con le dovute eccezioni: vedi l’Asia.

La Cina e l’India ma anche Brasile e Russia sono i nuovi grandi (e piccoli) attori del capitalismo mondiale. Essi sono in parte o del tutto influenzati dall’Occidente, nella misura in cui adottano la produzione per il profitto (a guida mista, statale e privata) e non per altre finalità. Rinnovatori del possibile sviluppo capitalistico e della sua durata. Attuatori di un bilanciamento tra Stato e mercato, secondo linee guida già sperimentate da noi in un passato più o meno recente. Niente di veramente inedito a scala planetaria, quindi, sul piano politico-economico, se non la crisi di tutto il capitalismo occidentale.

 

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