Sul concetto corrente di “pacifismo”.

Sul concetto corrente di "pacifismo"
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di Sergio Mauri

Per prima cosa suggerisco ai lettori moderati di “centrosinistra”, tipo “piddì” o ipocritume simile di abbandonare la lettura di questo post, ora. Costoro ne sarebbero infastiditi e, in ogni caso, non sarebbe il tipo di lettura a loro congeniale. Lo stesso suggerimento mi sento di dare a quei lettori la cui area di riferimento è (o era, come sarebbe più giusto affermare di questi tempi) la cosiddetta, autoproclamatasi tale, “sinistra radicale”. Anch’essi ne risulterebbero infastiditi se non sconcertati. Soffrirebbero di fastidio e sconcerto per una semplice ragione: sono colpiti dalla stessa mancanza di memoria storica (oltre che di coerenza politica) che con tanta grottesca sicumera imputano ai loro avversari. O, forse, sarà perché cercano nuove strade e quindi nuove teorie e nuovi linguaggi attraverso cui affermare i loro principi, senza avere ancora capito perché i propri avversari hanno avuto successo nell’usare sempre, e con indubitabile maggior sofisticatezza i “vecchi strumenti” e i vecchi linguaggi…semmai veicolati da mezzi più efficienti. Anche a costoro suggerisco di fermarsi qui. Ai lettori che abbiano come punto di riferimento la parte rimanente dello spettro politico del nostro paese (destrume vario)  dico solo che non li prendo nemmeno in considerazione. Mi rivolgo invece a coloro che sono mossi da interessi culturali veri: costoro possono tranquillamente procedere alla lettura di questo post. Poiché è a loro (a qualsiasi area culturale appartengano) che sono dedicate, eventualmente, queste righe.

Non mi ritengo “pacifista” secondo la vulgata corrente che trovo profondamente incoerente con il bagaglio etico e pragmatico che l’aggettivo sottintende. Dopo tutto è facile essere “pacifisti” come i “pacifisti” stessi intendono esserlo: si tratta semplicemente di una inclinazione etica, per lo più morale, che però in quanto tale può essere rimessa in discussione allorquando essi sentano “minacciati” alcuni fondamenti essenziali (ritenuti tali) del proprio stile di vita. Riassumendo: c’è una parte (non trascurabile) del “pacifismo” intimamente determinata a diventare guerrafondaia nel momento in cui vedesse toccati, lesi i propri interessi socio-economici.

E’ già successo nella storia. Per esempio, allo scoppio della I guerra mondiale in cui la II Internazionale dei lavoratori (crogiolo di pacifisti a parole) conflagrò sotto le ragioni della realpolitik e, quasi al completo, si mise al servizio delle rispettive classi dominanti guerrafondaie. Solo i bistrattatissimi bolscevichi (e pochissimi altri tra i quali i socialisti serbi) furono coerenti con le proprie idealità politiche e portarono avanti la bandiera dell’unico “pacifismo” possibile in guerra: quella del disfattismo rivoluzionario. Pace subito e senza condizioni. Funzionò.

Durante la II guerra mondiale tutte le parole d’ordine di questo tipo furono mantenute nel campo “socialista”; tuttavia, adattandole alla situazione concreta del momento e alla cultura della grande madre Russia e fu lanciata la “grande guerra patriottica”. Certamente, direte l’Urss fu aggredita, per cui difendersi fu un diritto non da concedere, ma da prendersi all’istante. Ed è vero, io sono tra quelli che festeggiano il День Победы (Den’ Pobedy). Tuttavia, il problema è che il “patriottismo” ed il suo uso ideologico furono utilizzati a piene mani in Occidente e anche da coloro che facevano riferimento alla “patria socialista”. Gli USA ringraziano ancor oggi per i servizi resi. Un “pacifismo” non può esistere solo come spinta etica, moralisteggiante, ma deve essere corroborato da una visione politica. Altrimenti finisce per riallinearsi e tornare all’ovile delle esigenze di chi prepara e fa la guerra.

In questi giorni di guerra in Siria, guerra che non farà altro che portare a nuovi e più feroci conflitti in futuro, parla chiaro in questo senso. Ferma restando la diagnosi sul ruolo nefasto (perché coerente con un blocco imperiale che svolge una funzione reazionaria che si ripercuote a scala mondiale) di Israele nell’area, e ferma restando la protervia criminale dell’attacco islamista parzialmente sostenuto dall’Occidente è sulla prognosi che bisognerebbe operare qualche ragionamento, comunque lungi dal volere, quest’ultimo, essere rivolto indiscriminatamente a tutti, urbi et orbi, e senza distinzioni.

L’uscita da un tale conflitto non può che essere al tempo stesso uscita dal modello di società in cui esso prende corpo. Un modello di società non di certo fondato sull’equilibrio, la giustizia, la sensibilità e il progresso. L’etica dei diritti umani non solo non esiste, ma è diventata un vergognoso strumento per imporre morte e distruzione. Peraltro, dovremmo ricordarci di chiedere conto agli israeliani, i quali sembrano essere diventati il faro, la punta avanzata dei “valori dell’occidente” (quali?), e giusto quando parlano di diritti umani (come la Livni al TG) della loro alleanza politico-economica di qualche lustro fa col Sudafrica dell’apartheid.

A conti fatti, sono il nostro modo di vita e il nostro modello di sviluppo ad essere profondamente sbagliati; e non solo. Per difenderli siamo, e non da oggi, disposti a qualsiasi tipo di crimine. È, pertanto, di fondamentale importanza che si continui nella costruzione di una o più forze politiche che si pongano il problema dell’uscita da questo modello sociale, economico e politico e utilizzino lo strumento del disfattismo, applicandolo alla realtà contingente in Siria, a Tel Aviv, come da altre parti, in primo luogo in casa nostra.

La mia opinione su coloro che promettono anche solo il contenimento di Israele, da Hamas (non prendo nemmeno più in considerazione l’OLP di Abu Mazen) alla Jihad islamica e Hezbollah che molti vedono come gli unici strumenti per “risolvere” la crisi, è la seguente. Non demonizzo e nemmeno deifico queste organizzazioni. Sono uno strumento di difesa dalla protervia armata dell’Occidente. Cerco solo di essere realista e credo che nella misura in cui si battono per la distruzione dello stato di Israele, raccontino una favoletta alla propria gente, utile solo per scopi demagogici. Un tale fatto scatenerebbe una guerra di proporzioni inaudite, nella quale non ci sarebbe più alcuno spazio per la Palestina stessa. Senza contare poi il fatto che ogni potere si mantiene in vita combattendo un nemico esterno, e nascondendo le reali contraddizioni fra i soggetti al suo interno, e ciò vale per tutti. Anche per le organizzazioni palestinesi.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger e ideatore e-learning. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni nel 2022.
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