Punto della situazione 3: competere senza industria.

gallino-luciano-la-scomparsa-dell-italia-industriale
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di Sergio Mauri

Nel Punto della situazione 2: “alle origini del declino”, parlai delle ragioni del declino e delle pesanti responsabilità della nostra borghesia nazionale che ha abdicato al suo ruolo di classe dirigente. Il libro di Luciano Gallino che parla proprio di questo processo di de-industrializzazione subito dall’Italia ci dà ulteriori spunti e ci fornisce nuovi materiali di discussione sull’argomento. Tuttavia, prima di toccare i punti salienti del libro di Gallino che andranno a comporre questo Punto della situazione 3, vorrei operare un paio di puntualizzazioni. Intanto, riavvolgiamo il nastro del tempo e torniamo a qualche anno fa, quando questi processi stavano affermandosi. La scomparsa dell’industria in Italia, è bene ricordarlo, fu usata come strumento ideologico per attaccare la classe lavoratrice, il concetto stesso di lotta di classe, i comunisti, la sinistra più in generale. Sindacati, partiti politici, uomini di (pseudo) cultura si sono affrettati a fare abiura delle proprie posizioni ed in alcuni casi hanno contribuito a costruire quel concetto del tutto ideologico e perciò privo di fondamento che passa sotto il nome di post-industriale. Il fallimento dell’azione della classe dirigente italiana, tuttavia, ha trascinato alla bancarotta anche la classe avversa e subalterna, in un dissolvimento politico senza precedenti. In questo senso Marx aveva ragione nel dire che al socialismo poteva essere contrapposta solo la barbarie e la rovina di tutti gli attori sociali protagonisti della lotta in corso.

Ora passiamo in rivista le ragioni della fine dell’Italia industriale. Uno dei problemi è stato rappresentato dalla costante ricerca, da parte della nostra classe imprenditoriale, di finanziamenti pubblici a scapito dell’innovazione di prodotto. Aiuti a scapito del rischio industriale. Un altro dei problemi, nasce invece, in conseguenza di fusioni fra agglomerati più o meno simili (spesso dissimili) nei quali l’incontro deciso a tavolino fra culture imprenditoriali differenti genera conflitti importanti e spesso distruttivi. Stesso discorso per quanto riguarda la diversificazione degli investimenti tanto in voga nei grandi gruppi in crisi che, invece di puntare sulla focalizzazione e concentrazione degli sforzi nel settore di appartenenza, se ne escono in parte, investendo e disperdendo le forze in altri settori, dall’editoria alla finanza, passando per l’immobiliare. E’, inoltre, possibile che l’inettitudine della classe imprenditoriale e dirigente italiana sia stata facilitata dalla subalternità che questa ha sempre dimostrato nei confronti degli USA, atteggiandosi a campione di atlantismo, auto-distruggendo la propria capacità competitiva (come nel caso dell’informatica, dell’automobile, della chimica  o della farmaceutica) in cambio di protezione.

Questa subalternità Gallino la enuncia considerando che

[…] Il ciclo di cessioni a imprese estere, privatizzazioni e smembramenti di grandi gruppi, […], ha concorso ad avvicinare l’Italia allo stato di colonia industriale. Magari relativamente prospera, eppur colonia. Nelle colonie, com’è noto, sono i governatori, nell’interesse dei paesi che rappresentano, a stabilire in quale direzione deve procedere, o arrestarsi, l’economia locale. Non i dirigenti o i lavoratori di questa.

Noi potremmo aggiungere che forse è proprio per questo che Monti ora adatta, in correlazione agli ordini ricevuti, la sua agenda e cambia marcia rispetto all’elettorato e al sistema di potere locale.

I settori in cui si è notevolmente ridimensionata o addirittura dissolta la nostra capacità industriale sono i seguenti: l’informatica (emblematico il caso Olivetti); l’aeronautica civile, in cui l’Italia non è riuscita ad avere una adeguata massa critica nonostante le competenze, la tecnologia e le risorse umane. Anche qui emblematica è l’ostinazione a rimanere fuori dal consorzio Airbus; la chimica; l’elettronica di consumo che sconta anche un basso livello di brevetti in assoluto ed in numero relativo rispetto agli altri paesi cosiddetti avanzati e tutto ciò nonostante i livelli altissimi di consumo nazionale che ne garantirebbero la vita; l’industria automobilistica che sta subendo una forte crisi; l’hi-tech. Ciò che balza inoltre agli occhi dell’osservatore è la dimensione, piccola, delle nostre aziende rispetto a quelle di Francia, Gran Bretagna o Germania per comparare categorie dimensionali molto simili e tralasciando per decenza il confronto con paesi meno popolosi e/o di nuova tradizione industriale come la Finlandia, l’Austria, la Svizzera, l’Olanda, la Danimarca, paesi che puntano molto sulla conoscenza…. No: piccolo non è bello! Soprattutto quando un azienda deve finanziarsi ricerca e sviluppo e, a causa delle sue scarse dimensioni, non riesce a raccogliere le risorse per farlo.

Come osserva Gallino, la miriade di aziende medie e soprattutto piccole e piccolissime non è sintomo di vitalità dell’economia italiana, poichè 1) la capacità di innovazione di queste è dipesa da quadri tecnici provenienti dalla grande scuola industriale oggi assente e 2) mancano le eccellenze che possano interagire con piccole e medie aziende. Come già osservato le dimensioni ridotte tagliano fuori dalla possibilità di una ricerca ad alto livello che possa poi assicurare la possibilità di competere a livello internazionale. Inoltre,

Un paese che conti prevalentemente su di esse per la propria produzione industriale è condannato ad importare tecnologia dall’estero assai più di quanta non riesca ad esportarne, come attestano nel caso italiano i dati relativi all’import-export di brevetti internazionali. […]

Riassumendo, alla classe dirigente italiana è mancata la possibilità di vedere oltre la contingenza, sia per ragioni di insufficienza culturale che per opportunismo. Rispetto a queste considerazioni un paese, come già osservato, rischia seriamente una colonizzazione economica che in parte già c’è. E tuttavia nessuno dice che non ci debbano essere anche delle aziende estere che operano su suolo italiano ma, come ricorda Gallino

[…] E’ ovviamente possibile che in quel paese, in quei particolari settori, operino unità produttive controllate da imprese straniere, capaci di assicurare localmente occupazione e reddito. Ma una tale situazione implica che tutte le decisioni in merito ai livelli di occupazione, alle condizioni di lavoro, alle retribuzioni, a che cosa si produce e a quali prezzi, ai prodotti che entrano nelle case e strutturano la vita delle persone, saranno prese altrove. Con il presupposto che i relativi costi economici, sociali e umani ricadranno sul paese ospitante. Per paesi in via di sviluppo, che l’industria non l’avevano, potrebbe essere – in molti casi di fatto è stata – una soluzione accettabile, almeno per un certo periodo. Per uno che sia stato tra i primi paesi industriali del mondo si tratterebbe invece di una rovinosa caduta. l’Italia sta correndo precisamente questo rischio.

E’ tremendamente allarmante che, nell’attuale campagna elettorale, manchino totalmente questi temi di prima grandezza, sintomo semmai di una irrecuperabilità dei nostri leaders, della loro debolezza, della loro conclamata incapacità di lavorare se non per qualche entità che esula l’Italia come nazione storicamente determinata. Sintomo della loro subalternità e rifiuto di misurarsi con il mondo. Tutto questo in un momento in cui i Centri di Ricerca di varie associazioni di categoria (Confcommercio, Confesercenti, Casartigiani, CNA, Confartigianato) parlino chiaramente di consumi in picchiata e fallimenti a catena.

Una biografia di Luciano Gallino.

Luciano Gallino è stato un sociologo, accademico, saggista e editorialista italiano. È stato professore emerito di Sociologia presso l’Università di Torino, dove ha insegnato dal 1965 al 2002. È stato anche presidente dell’Istituto italiano di sociologia (1987-1992) e della Società italiana di sociologia (1992-1997).

Gallino è nato a Torino il 15 maggio 1927. Ha studiato sociologia all’Università di Torino, dove si è laureato nel 1954. Dopo la laurea, ha lavorato come ricercatore presso il Centro di studi sociali Olivetti di Ivrea. Nel 1965 è stato chiamato a insegnare sociologia all’Università di Torino, dove è rimasto fino al 2002.

Gallino ha scritto numerosi libri e saggi sulla sociologia del lavoro, della tecnologia e della società. È stato anche un prolifico editorialista, e i suoi articoli sono stati pubblicati su quotidiani e riviste italiani e internazionali.

Gallino è stato un pensatore originale e indipendente, e il suo lavoro ha avuto un profondo impatto sulla sociologia italiana e internazionale. È stato un difensore dei diritti dei lavoratori e delle minoranze, e ha sempre combattuto per una società più equa e giusta.

Gallino è morto a Torino il 8 novembre 2015 all’età di 88 anni.

Ecco alcuni dei suoi libri più importanti:

  • L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti (2001)
  • Disoccupazione e disuguaglianze (2003)
  • Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia (2010)
  • La lotta di classe dopo la lotta di classe (2012)
  • Finanzcapitalismo. La società del denaro in crisi (2013)
Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022 e Silele Edizioni (La Tela Nera) nel 2023.
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