La Taranta e l’omologazione culturale.

Carataranta
Carataranta

….tutte le forme moderne hanno vinto sulla tradizione a causa della promessa di superamento di ogni arcaicità, miseria, valori, in nome di un nuovo materialismo economico.

Scrissi questo testo per rispondere alla richiesta di Elio Scarciglia che mi chiedeva alcune considerazioni sul fenomeno popolare della Taranta. La Taranta è l’argomento strumentale attraverso il quale parlare del nostro mondo contemporaneo, confrontandolo con quello del passato. In particolar modo, parlare della Taranta, vuol dire parlare di una collettività che creava cultura e confrontarla col mondo di oggi dove tutto questo é scomparso. Chi ha creato la Taranta può creare qualcosa di paragonabile oggi? Il quesito pone delle domande urgenti su chi sia quel soggetto, se oggi esista o meno e che cosa stia facendo. Usare qualche strumento culturale come l’antropologia e la semiotica, anche se dobbiamo confessare che l’approccio semiotico classico é fallito, ci possono aiutare a rispondere alla domanda. [1]

Inizio col dire che la Taranta era una forma musicale compiuta in sé e per sé. Non era solo musica, ma anche una maniera rituale di curare i disagi psico-fisici, per “riallinearsi” col mondo. Voglio concentrarmi sulla sua forma musicale. Essa nacque dall’elaborazione collettiva e dalla socialità di una determinata epoca storica. Il mondo che l’ha vista nascere era un mondo contadino, pre-capitalistico. La Taranta è figlia del mondo contadino. Oggi i contadini e il loro mondo che vorrei definire i “genitori della Taranta” non ci sono più, perché eliminati dal particolare sviluppo capitalistico italiano e i pochi superstiti, ormai mutati in aziende, hanno subito un profondo processo di omologazione sia industriale che culturale. Sono, perciò qualitativamente altro da quei contadini. Di conseguenza è impossibile che oggi nasca una forma musicale di quel tipo, con quelle caratteristiche, da un qualsivoglia contesto sociale locale. Il discorso potrebbe allargarsi a tutte le forme di cultura che abbiamo conosciuto fino a qualche decennio fa, ed è un argomento che approfondiremo nel finale di questo scritto.

Oggi assistiamo, invece, ad una rielaborazione e sussunzione di quella forma (come di altre) alla industria discografica e dell’intrattenimento. Discografia ed intrattenimento, che non a caso ho citato assieme in quanto oggi tendono all’unità non solo dei processi industriali di assemblaggio del prodotto, ma anche, se non soprattutto, a livello di concentrazione economica e finanziaria. L’industrie discografica e dell’intrattenimento celebrarono il loro matrimonio oltreoceano, nel paese indubbiamente più sviluppato e all’avanguardia per ciò che riguarda l’industria capitalistica.

Quindi, ciò che un tempo scaturì dall’elaborazione sociale collettiva oggi scaturisce dall’industria. E’ un primo punto su cui riflettere.

La causa che può spiegare questo fenomeno è da ricercarsi nel genocidio culturale e sociale (il termine si può legittimamente applicare agli ultimi decenni della nostra storia nazionale) che ha asciugato le fonti della creatività popolare. Un genocidio reso possibile non dalla cattiveria dei singoli uomini, ma dalla necessità di sopravvivenza di un sistema economico alla continua ricerca del profitto privato, di Stato, cooperativistico o quant’altro. La soppressione del contesto culturale tradizionale non è stato vissuto come tragedia, ma come una conquista non solo giustificandone ogni abuso e violenza, ma anche perseguendone ansiosamente le finalità per raggiungere quella Terra Promessa chiamata “società del benessere” di cui oggi vediamo le nefaste conseguenze.

Industrializzazione come conseguenza di questa necessità di sopravvivenza del sistema. La scienza applicata come supporto di tutti i processi produttivi, commerciali e ideologici, a tutte le manifestazioni della vita umana. Processo di allargamento a coprire tutti gli ambiti, anche quelli vergini, alla logica mercantile adibita al profitto dove sopravvivono delle produzioni per la semplice sussistenza. Non c’è, perciò, alcuna motivazione morale da inserire nel gioco buono-cattivo. E’ bene precisarlo, per uscire dalle secche del “giusto-sbagliato” come termini morali assoluti.

Quello del genocidio socio-culturale “per necessità”, cioè moralmente neutro, è un secondo punto su cui soffermarsi.

Attraverso questo processo di industrializzazione si è avuto, nello specifico, l’inserimento di una strumentazione rock (elettronica, elettrica…) e di una tecnologia di riproduzione sonora le quali, già di per sé, deturpano la forma compiuta della Taranta che ne viene stravolta. Anche se vi può essere della piacevolezza nell’ascolto da parte di un orecchio – come il nostro – ormai abituato alla ricezione di un suono industrializzato, “ripulito”, standardizzato.

Secondo il musicologo Philip Tagg, il suono riprodotto sul CD è diventato il punto di riferimento non solo per l’ascoltatore/consumatore/fruitore, ma anche per il musicista stesso che ormai opera in un ambiente del tutto differente da quello “naturale”. Questo suono, non è assolutamente veritiero perché ciò che si incide non è il tutto, ma solo quella parte (ovvero quelle frequenze) ritenuta vendibile, depurata da sonorità “sgradevoli”, da eventuali errori, imprecisioni. Depurata cioè dal “lato umano”. E’ inutile nascondersi che, questa parte vendibile, ha un riscontro nelle indagini di mercato e ne influenza di volta in volta i contenuti.

Anche nella musica dal vivo si tende a quel suono astratto, “puro”, industrializzato e standardizzato. Vi sono, sempre citando Tagg, delle controtendenze alla corrente dominante, ma non fa parte dell’economia di questo breve scritto approfondire questo versante. Basti qui sapere che il “Rave” da una parte e il “Grunge” dall’altra hanno rappresentato questa controtendenza.

L’inserimento nell’industria musicale di un certo tipo di strumentazione e tecnologia è necessaria dal momento in cui essa diviene sinonimo – e fenomeno di massa come il pop-rock – di liberazione, di moda, di successo e, coadiuvata da un’altra industria, quella dei mass-media, riesce a muovere le masse ormai pronte per l’”interclassimo dei consumi”, a recepire questo messaggio. Tempi nuovi, emarginazione della musica popolare, ma anche classica (che tuttavia rimane rappresentante ufficiale della grandezza storica della classe dominante) e introduzione di un nuovo tipo di strumentazione musicale (elettrificata ed elettronica) vanno in parallelo. Questo è un terzo spunto di riflessione.

Un altro problema di cui tener conto quando si analizza la musica popolare è quello che essa, per sua natura, non ha un autore. Non vi è una “individualizzazione” del “prodotto artistico” e , quindi, nemmeno un “prodotto” che di conseguenza sarebbe già pronto per il “consumatore”. Nella musica popolare, Taranta inclusa, non c’era alcun prodotto (artistico) da vendere, i partecipanti non erano spettatori versus l’individuo autore, artista o interprete che lo si voglia chiamare. Anche in questo caso, si disvela l’origine antica, pre-capitalistica della musica popolare. In questa musica, infatti, non c’è la classica dicotomia autore-pubblico: quarto spunto di riflessione.

Cosa fa allora l’industria discografica (e dell’intrattenimento)? Cerca di qualificare il “prodotto musicale” per esigenze di marketing e, quindi, introduce categorie come il folclore, le zone di appartenenza, come un vero e proprio marchio del prodotto stesso. Inoltre, introduce gradualmente degli autori e dei gruppi con cui il consumatore debba identificarsi. Individualizzazione del “prodotto artistico”, reso possibile dalla reale essenza della nostra società basata sull’individualismo e della dimensione privata: quinto spunto.

Tutto ciò non fa altro che snaturarne il senso. Perciò, e al di fuori di ogni moralismo, se un gruppo di Taranta esegue le musiche con strumenti tradizionali e registra ciò che suona cercando di renderlo il più possibile fedele all’origine, andando oltre le esigenze di vendita, al limite avrà compiuto un buon lavoro. Tutto il resto, cioè la commistione con strumenti e tecnologie fuori da quelle della Taranta sono una mera costruzione a tavolino dell’industria dell’intrattenimento alla ricerca di nuovi spazi, nuovi strumenti per fare profitti. Tutto legittimo, ma nulla da spartire con lo spirito della Taranta.

Ancora un aspetto. Nella Taranta, vediamo un corpo e una mente (una persona) che attraverso la danza rituale deve ritrovare una sintonia col mondo circostante (vedi Marco Mazzeo). Nelle operazioni di Taranta-rock, dubito fortemente che quest’aspetto risalti agli occhi e al cuore di chi vede. Ciò in virtù del fatto che la strumentazione usata, i timbri conseguenti, i tempi (di solito sopra i 100 bpm), sono nati per l’intrattenimento, il passatempo allegro e spensierato…come può essere giusto che sia.

Ma ancora una volta, l’occultamento insito nella prassi esecutiva di una rock-band, per quanto orientata a riprodurre lo spirito della Taranta, è invece funzionale a catturare l’interesse del più vasto pubblico di consumatori, tenuti sostanzialmente all’oscuro del senso profondo, irrazionale (distante dall’uomo contemporaneo occidentale) di ciò che vedono e delle implicazioni socio-culturali a cui potrebbero essere rimandati. Un sesto spunto di riflessione è la scomparsa, nel nostro mondo, dell’irrazionalità che ha creato la Taranta. Scomparsa dell’irrazionalità significa anche de-emozionalizzare la nostra cultura e gli uomini che la fanno, in una parola disumanizzarla. E’ noto che le emozioni non solo sono importanti, ma sono anche “pericolose” per il funzionamento di un apparato amministrativo molto complesso, quale è la nostra società contemporanea.

Concludendo, non credo che tutto questo (l’industrializzazione del “fenomeno Taranta”) faccia parte di un progresso della nostra società, fatalisticamente vissuto come tale. Credo piuttosto che concerna lo sviluppo del mondo capitalistico (ben diverso dal concetto di progresso) che dovremmo analizzare attentamente. In primo luogo proprio chiedendoci perché oggi le comunità, le “masse”, non producono più ciò che hanno prodotto in passato, a causa di una sorta di prosciugamento delle fonti creative.

Mauri Sergio, Settembre 2007

1. La causa fondamentale di questo fallimento è da imputare alla centralità del linguaggio scritto.

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