La liberazione di Trieste.

Liberazione di Trieste
Liberazione di Trieste

Spiegare che cosa sia stata la liberazione di Trieste, per i triestini innanzitutto, ma anche per tutti coloro che di Trieste non sono, a settant’anni dalla vittoria mondiale sul nazifascismo, è semplicissimo: è stata la fine di un incubo di morte! Questo sentimento rimane ancor’oggi vivo tra gli antifascisti italiani e sloveni, nonostante la revisione di pezzi importanti della nostra storia operata in maniera bi-partizan da quel pezzo consistente di istituzioni – ed in particolare dall’esercito – in cerca di nuovi appigli, alibi e giustificazioni per sopravvivere a sé stesse ed alle proprie nefandezze. Per una buona parte di triestini, di lingua italiana e slovena, uniti da sentimenti antinazifascisti, il 1° maggio del 1945 è ancora una data da ricordare con commozione e disponibilità militante. Questi sentimenti, corroborati dalla comune lotta contro il nero mostro che si aggirò per l’Europa per oltre un ventennio, si sono saldati, definitivamente, alla storia dei popoli dell’ex-confine orientale. Il tutto grazie ad inenarrabili sacrifici e a slanci straordinari di donne e uomini impareggiabili.
Mio padre ricordava, con mai sopita ostilità, gli anni del fascismo a Trieste, anni in cui era stato obbligato, per decreto, a diventare italiano ed aveva visto la sua scuola, nel rione di San Giacomo, quella organizzata dalla Società di Cirillo e Metodio, chiusa dai fascisti. I suoi insegnanti erano stati definiti tutti, senza fondamento alcuno, come dei pericolosi “irredentisti slavi”, mentre, al tempo stesso, l’uscita dalle aule scolastiche alla fine delle lezioni per i ragazzini delle scuole slovene di Trieste era, quasi quotidianamente, punteggiata da assalti con lancio di pietre ed insulti razzisti da parte di giovinastri mandati dai caporioni fascisti e nazionalisti italiani ad usare violenza ed infondere il terrore nei confronti dei giovani – e meno giovani – sloveni.
Sarebbe già stato molto grave il solo chiudere le scuole slovene di Trieste e impedire agli sloveni triestini di studiare ed esprimersi nella loro lingua. Ma la disputa non si fermò alle scuole. Si ampliò a tutte le questioni della vita civile, economica e politica della Venezia Giulia. Tutte le società di tipo economico e finanziario, le associazioni culturali, al pari delle proprietà fondiarie degli sloveni furono messe in difficoltà ed alla fine chiuse, assorbite da istituzioni italiane, o semplicemente depredate dal governo fascista, attraverso un’accorta politica fiscale. Una volta colpita profondamente la dignità del popolo sloveno, come si poteva pensare ad un ritorno alla normalità? E come si poteva pensare che gli antifascisti italiani o sloveni, avessero potuto soprassedere ai torti subiti?
La lotta per la sopravvivenza dei popoli jugoslavi, ma anche degli antifascisti italiani, si fonde – allora – con quella per la rivoluzione sociale, facilitata anche dal fatto che gli sloveni, al pari dei loro omologhi italiani, in buona parte sono operai, artigiani o piccoli contadini gravemente impoveriti dal fascismo. La lotta, perciò, si salda fra proletari italiani e sloveni, fondando una nuova forma di vita condivisa sotto le bandiere rosse del socialismo, una forma di vita fondata sulla pace, il rispetto delle reciproche diversità, sull’uguaglianza e la giustizia. Per un mondo nuovo, diverso e più giusto.
La fratellanza sotto le bandiere rosse della rivoluzione sociale, vissuta come una risposta spontanea e naturale dai poveri e dagli oppressi della Venezia Giulia come del mondo intero, si realizzò con la partecipazione alla guerra di liberazione nazionale e per l’instaurazione del socialismo, quindi all’appoggio dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo. La brigata Fontanot, composta da italiani e annessa all’esercito di Tito, fu parte attiva ed eroica di quella lotta, mentre al tempo stesso ricordiamo gli italiani presenti anche all’interno del IX° Korpus che liberò Trieste dal giogo nazifascista e dalle atrocità della Risiera. Il 1° maggio del 1945, allora, e non in una data inventata come quella del 30 aprile, Trieste è città riscattata dalle brutture della guerra, dai tradimenti e dai collaborazionismi con i fascisti e gli occupanti nazisti.
Molte falsità sono state dette sui giorni che seguirono immediatamente il 1° maggio 1945, i 42 giorni di amministrazione jugoslava e socialista. Tuttavia, vanno ricordate almeno queste cose fondamentali:
1-Gli jugoslavi furono in grado di riportare alla normalità una città seriamente ferita dalla guerra in pochi giorni, al contrario della successiva amministrazione anglo-americana di Trieste che ci mise parecchi mesi ed impose le proprie regole con metodi e linguaggio coloniali;
2-Non vi furono atrocità commesse dall’esercito jugoslavo proprio perché, dovendo Trieste essere annessa alla Jugoslavia socialista, non sarebbe certo stato quello il modo migliore per guadagnarsi la simpatia della popolazione;
3-Vi furono tra i 5 e i 600 deportati in Jugoslavia, che furono processati come criminali di guerra, la maggior parte dei quali fece ritorno a casa o dopo il processo o dopo un periodo di detenzione. Gli altri furono condannati a morte dai tribunali jugoslavi e le sentenze eseguite.
4-Trieste non fu sottoposta ad alcun saccheggio al momento del ritiro delle truppe di Tito. I danni, secondo i dati dell’archivio comunale di Trieste, corrispondono alla metà dello stipendio mensile di un dirigente comunale dell’epoca.
Alla luce di tutto questo le ignobili polemiche scatenate dalla destra la scorsa estate in seguito alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio Comunale che ricordava, giustamente, essere stata la città liberata dall’armata jugoslava, appaiono per quello che sono: oscena paccottiglia da nostalgici nazifascisti. Nella notte della ragione prevalente nella città giuliana si è aggiunta anche la polemica sull’apposizione di una targa in ricordo della data del 12 giugno, in cui gli alleati presero, il controllo della città direttamente dalle truppe jugoslave chiamate a smobilitare pacificamente da Trieste. Un’ulteriore dimostrazione dell’ignoranza e della malafede con cui a Trieste si continua a gestire il futuro della cittadinanza.

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