Il Kosovo, obiettivo europeo.

Il Kosovo, obiettivo europeo
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di Sergio Mauri

Affrontare questo tema significa fare i conti, di nuovo, con una brutta parola, che imbarazza e perciò non si sente più pronunciare. Non possiamo comprendere appieno i fatti che stanno coinvolgendo il paese balcanico se non contestualizziamo questo passaggio geopolitico nel più ampio discorso che riguarda le mire imperiali europee. Il Kosovo è parte della strategia di espansione dell’UE e la dichiarazione di indipendenza serve a legittimare il fatto compiuto.  E’ importante, per questo motivo, delineare la storia, i tratti evolutivi dell’imperialismo europeo, in cui entrano in rapporto dialettico Stati Uniti e NATO.  L’Unione Europea è la forma particolare, il luogo fisico che il capitale tende ad assumere per comporre i propri interessi, come esito della crisi internazionale. L’Unione ha l’apporto attivo di stati nazionali inseriti in una nuova organizzazione della catena imperialistica. Per sostenere questo sforzo, le sue strutture politiche devono creare una struttura militare che possa sostenere le esigenze dell’imperialismo europeo stesso. L’Unione Europea da il quadro politico “legale”, nonché finanziario, per sostenere le politiche imperiali degli ex-colonialisti europei.

Prima del dispiegarsi del piano politico e giuridico dell’Unione non vi era, da parte della CEE, competenza in materia di politica estera comune e di iniziative militari. Infatti, la seconda guerra mondiale era appena finita e lo scontro sociale era molto forte, centrato sulla “ricostruzione”. Vi era altresì l’esempio sovietico che l’Occidente doveva fronteggiare. Dopo il crollo del Muro, in mancanza del confronto col modello sovietico, ma nel pieno – comunque – delle contraddizioni del sistema capitalistico, il capitalismo europeo poteva dedicarsi, con maggiore libertà, alle sue mire imperiali.

Il primo passo viene compiuto prima del crollo del Muro costruendo il CPE (Cooperazione Politica Europea). Siamo nel 1970, essa viene lanciata in via informale e poi istituzionalizzata nel 1987 con l’Atto Unico Europeo, prima modifica dei trattati istitutivi delle Comunità Europee. Prevedeva la consultazione tra gli Stati membri in ordine alla politica estera.

Nel 1992, a Muro crollato, la CPE (col Trattato di Maastricht) evolve in maniera sostanziale e viene introdotta la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) che costituisce il “secondo pilastro” dell’Unione Europea. Per chiarezza, il primo pilastro è il mercato comune europeo; il terzo è la “Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale” che, dopo l’11 settembre viene utilizzato per la “lotta al terrorismo”.

Si tratta di pilastri giustificatori dell’imperialismo. Ad ogni azione necessaria si costruisce l’armamentario ideologico. Abbiamo così: la “salvaguardia dei valori comuni” con la quale si intende libero mercato per le (grandi) imprese europee. Quando si parla di esportazione di democrazia è chiaro che si armino i bombardieri, come in Irak e in Serbia.

Quando si parla, invece, di “indipendenza ed integrità” nazionale, come nel caso del Kosovo e di “difesa dei diritti umani”, bisogna capire che essi sono elementi che costituiscono le giustificazioni delle provocazioni inventate di cui la storia è piena: presa con la forza delle colonie spagnole di Cuba e Filippine o il famoso “incidente del Tonkino”.

Peraltro, la difesa dei diritti umani ha preso una piega fortemente classista (proprietà privata difesa come diritto umano; operai morti nei cantieri o nelle fabbriche no). Inoltre, l’U.E. applica questa categoria a Cuba in maniera aleatoria. Nonostante a Cuba la speranza di vita sia quasi il doppio di quella di altri abitanti dell’America Latina, tutto ciò non vale. Infatti, contro l’anomalia caraibica l’U.E. ha elaborato l’unica posizione comune per violazione dei diritti umani, durante il Consiglio Europeo di Dublino del 1996, per iniziativa di Aznar (il “fascista”, secondo la definizione di Chavez).

La politica estera di sicurezza comune (PESC) si modifica poi nel 1999 in Politica europea di sicurezza e difesa), un ulteriore passo verso una netta politica di dominio. E’ grazie all’entrata in vigore del trattato di Amsterdam (al titolo V°) che si introducono nuove “missioni”. L’innovazione concerne le cosiddette “missioni umanitarie” e di evacuazione, quelle per il mantenimento della pace e quelle costituite da forze di combattimento per la gestione delle crisi, nonché quelle intese a riportare la pace.

La PESD aggiunge la “prevenzione dei conflitti”. Le strutture politico-militari permanenti costitutive, sono il Comitato politico di sicurezza (COPS), il Comitato militare dell’UE (CMUE) e lo Stato maggiore dell’UE (EMUE). Bastano ulteriori 6 mesi e capi di stato maggiore e di governo dotano la UE della Forza europea di reazione rapida (FERR) che mobilita 60.000 uomini. I contributi volontari a questa forza di pronto intervento, fanno lievitare il numero dei militari a 100.000, con 400 aerei da combattimento, 100 navi.

La Jugoslavia fornirà il vero banco di prova del “nostro” imperialismo. Infatti, i paesi UE potevano intervenire – come intervennero – solo nel quadro della forza di pace dell’ONU e in seguito sotto la guida degli USA, come forza NATO. Ma questo limite all’imperialismo europeo sarà superato proprio in Jugoslavia con le prime 3 missioni PESC, quando l’UE condusse con 500 agenti una missione di polizia in Bosnia Erzegovina addestrando le forze di polizia locali. Sempre in Bosnia, dal 2005 l’UE detiene il comando di una forza di stabilizzazione (Eufor) che conta circa 8000 unità.

Altri passaggi di questa strategia: dicembre 2003, varo della “Strategia europea in materia di sicurezza”; giugno 2004, varo della Politica Europea di Vicinato (PEV), creazione di Battle Group per azioni di intervento rapido, creazione dell’Agenzia Europea di Difesa.

La strategia “di sicurezza” e di “difesa” comprende l’allargamento e l’annessione ai paesi dell’Europa centro-orientale, quindi anche all’ex Jugoslavia. Si vuole ultimare la partecipazione al mercato unico europeo, la sua liberalizzazione ed integrazione per giungere al libero movimento di beni, capitali, persone (lavoratori), servizi, previe riforme politiche, sociali ed economiche.

In particolare, oltre al movimento illegale di capitali, attraverso i più disparati traffici illeciti, oltre al serbatoio di manodopera per i paesi occidentali, il Kosovo è oggetto di attenzione da parte dell’Italia, pronta ad insediare tutta una serie di attività (edilizia, legno, energia rinnovabile, vino) facendole passare per una “strategia di cooperazione”. In questa strategia è la regione Friuli-Venezia Giulia ad essere all’avanguardia.

In fondo tutte le politiche di sicurezza, lungi dal garantire che il Kosovo sia un paese senza alta densità di crimine organizzato, non fanno che enfatizzare il ruolo di discarica che esso si è guadagnato in questi anni. Come non ricordare, infatti che Camp Bondsteel è la più grande base americana in Kosovo, salita agli onori della cronaca per essere la Guantanamo dei Balcani, dove al pari di Guantanamo i detenuti non godono di nessun diritto giuridico.

Gli americani si sono stabiliti in Kosovo già da tempo, da padroni della NATO, precursori delle strategie imperiali che convergono in buona parte con quelle dell’UE. All’UE, attraverso i maggiori paesi europei coinvolti nello smembramento dell’ex-Jugoslavia non è rimasto che fare presto, riconoscere il paese balcanico ed ultimare la sua assimilazione a propri interessi per non lascorlo totalmente nelle mani del “fratello nemico” americano.

Sergio Mauri
Autore Sergio Mauri Blogger e ideatore e-learning. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d’Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022.
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