Il gigante cinese.

Hefei skyline
Hefei skyline

C’è stato e continua ad esserci un grande dibattito su che cosa sia la Cina: un paese liberista, socialista, a capitalismo di Stato. Un dibattito salutare che, tuttavia, non soddisferà a breve la necessità di risposte adeguate. Non è questo il luogo per le grandi teorie economiche, ma la questione cinese è assai complessa e si può riassumere in due tratti fondamentali: in Cina non è mai esistita la proprietà fondiaria, motore dello sviluppo capitalistico occidentale; in Cina, in realtà, non esiste una vera e propria proprietà privata, ma solo una proprietà personale limitata nel tempo dallo Stato. Ci sono poi delle divisioni in classi nella società cinese, anche se – per onestà – bisogna dire che la situazione è talmente dinamica che si ribalta di anno in anno. La tendenza è quella del livellamento verso l’alto.

Per questi ed altri motivi i critici della Cina dovrebbero mettersi a commentare la struttura sociale di quel paese con in mano i classici dell’economia marxista e non marxista. Scoprirebbero molte cose interessanti.

La Cina ha – apparentemente – la stessa divisione in classi sociali rilevabile anche in Occidente. Le singole percentuali, i singoli dettagli possono presentare delle differenziazioni – vista la diversità di composizione tecnica del capitale (capitale fisso rispetto agli operai) investito, ad esempio – ma la tendenza è simile. E’ anche ovvio che una forma, peraltro molto più ridotta di quella propagandata dai media occidentali, di lotta classe sia non solo presente, ma attiva, in quel paese. Da un punto di vista strettamente economico, comunque, se andiamo ad analizzare un periodo più lungo, gli anni che vanno dal 1990 al 2002, vediamo che la Cina ha continuato, proseguendo la tendenza in atto dagli anni ‘50, ad assumere sempre più importanza sul mercato mondiale; le sue esportazioni sono passate da poco meno di 800 miliardi di dollari annui nel 1990 a circa 1700 miliardi nel 2002 con una crescita costante. Anche le importazioni hanno seguito, con valori più bassi, lo stesso trend crescendo però progressivamente meno delle esportazioni, cosa che indica come la Cina vada progressivamente ad occupare una posizione sempre più importante sul mercato mondiale come paese esportatore con relazioni economiche che si sviluppano intensamente nei diversi continenti. Anche dal punto di vista finanziario la Cina ormai è gigante; cito solo un paio di situazioni che confermano quanto scritto precedentemente. Bisogna, tuttavia, dire che la finanza viene usata dai cinesi soprattutto per lo scambio con l’estero. All’interno del paese è come il gioco del monòpoli, con lo Stato che emette titoli di debito (grazie al surplus delle esportazioni e al fatto che il debito è direttamente controllato dal governo) che i cittadini devono acquisire per nuove attività, case, investimenti vari, eccetera.

Attualmente, il Giappone detiene circa un terzo (tra gli 850 e i 900 miliardi) di tutte le riserve valutarie mondiali in dollari; la Cina ne detiene quasi un sesto (circa 400 miliardi); insieme detengono la quota più rilevante dei titoli di Stato americani cioè sono i paesi che principalmente finanziano e sostengono, con rilevanti acquisti quotidiani dei buoni del tesoro, il debito pubblico americano. La Cina, proprio alla fine del novembre 2004, firmò un accordo col Brasile per un finanziamento di 100 miliardi di dollari in dieci anni. E’ una cifra enorme da erogarsi ad un paese latino-americano appartenente a quell’area geografica considerata dagli Usa come “il proprio cortile di casa”. Questa è la dimostrazione di come la Cina sia in grado di esportare massicciamente il proprio capitale finanziario in aperta concorrenza con la superpotenza americana e con il resto del mondo. E’ ormai noto il progressivo inserimento, una specie atipica di colonizzazione, nell’economia di quasi tutto il continente africano.

Su questi problemi reali, stanno sorgendo delle divisioni nello schieramento capitalistico mondiale. Anche sotto questa luce, potremmo spiegare la presenza degli USA in Asia, dall’Iraq all’Afghanistan, solo per citare dei paesi con la guerra in casa, nonché la “scoperta” della dittatura a Myanmar e la continua collaborazione col Pakistan.

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