Anniversari: dialogo sul movimento no-global.

No Global protest
No Global protest

Un ricordo di ciò che è stato il movimento no-global.

Questo post vuole proseguire il dibattito iniziato col Saggio sul socialismo di **, qualche giorno fa. Inizio con alcune considerazioni sui no-global, citando quelli che secondo me, sono i loro punti deboli.

1-La trasversalità sociale, cioè il fatto che dentro ci fossero cattolici, comunisti, libertari, ecologisti, anche la Nuova destra, eccetera. La confusione delle risposte ad un vero problema posto dalla internazionalizzazione del capitalismo.

2-L’interclassismo. Cioè il fatto che “tutti”, dietro la finzione del sistema che vuole tutti giuridicamente uguali per perpetrare le disuguaglianze sostanziali nei rapporti sociali, che il movimento ha fatto propria, siano obiettivamente colpiti quantitativamente e qualitativamente alla stessa maniera dalla globalizzazione.

3-Il riformismo radicale espresso dal movimento. In collegamento con quello storico. Esso si esplica, sì, attraverso una forte lotta contro la repressione, ma all’interno del quadro istituzionale e delle compatibilità economiche. Essi si scontrano con le conseguenze economiche e sociali che il capitalismo produce continuamente, ma non vanno alla fonte dei guai che esso produce in modo esponenziale. Dovrebbero mettere in dubbio il sistema.

Il capitalismo di per sé non si è internazionalizzato in questi ultimi tempi, nel senso che non si tratta affatto di un processo recente. Immediatamente prima della I° guerra mondiale l’interscambio commerciale tra le nazioni — rispetto alla ricchezza complessiva – era altrettanto grande di oggi. Ciò che è cambiato con la “globalizzazione”, è una infrastruttura tecnica (l’informatizzazione) che permette decisioni immediatamente operative; l’abolizione delle frontiere nazionali nella progressiva creazione di aree di libero scambio; la finanziarizzazione dell’economia, con i centri decisionali che si allontanano dal ciclo di produzione per operare su entità intangibili come i capitali finanziari, o l’hot money. “Globalizzazione” significa soprattutto che se un governo di qualche piccolo paese del terzo mondo fa una normativa di tutela ambientale, o nel campo del diritto del lavoro, che danneggia i miei investimenti, io posso spostare i miei capitali da quel paese all’emisfero opposto del pianeta in 24 ore.

La difficoltà a rispondere a ciò non dipende dalla molteplicità delle matrici di origine del soggetto no-global, dove mi pare invece che viga un’alta e condivisa consapevolezza della situazione, tra cattolici, libertari, marxisti, eccetera…

L’interclassismo. Cioè il fatto che “tutti”, dietro la finzione del sistema che vuole tutti giuridicamente uguali per perpetrare le disuguaglianze sostanziali nei rapporti sociali, che il movimento ha fatto propria, siano obbiettivamente colpiti quantitativamente e qualitativamente alla stessa maniera dalla globalizzazione…..

Nel lessico politico italiano l’espressione “interclassismo” è di origine democristiana (mi pare che l’abbia inventata Sturzo), e significa trovare un presunto punto di convergenza degli interessi di classi diverse per un ordinato e cauto avanzamento sociale verso obiettivi di progresso e giustizia. In questo senso il movimento no-global non è “interclassista”. Semplicemente riflette la consapevolezza della marmellata in cui si è convertito il tessuto sociale dei paesi altamente industrializzati, in cui aggregati sociali come le classi hanno perso un ruolo di strutturazione dei processi. Insistere sulla natura classista di un movimento rivoluzionario può implicare chiudere gli occhi sull’ansia di integrazione che è presente negli strati a basso reddito della popolazione (le massaie che votano per Berlusconi) o sull’elevata consapevolezza critica che può determinarsi in un creatore di software.

Il riformismo radicale espresso dal movimento. In collegamento con quello storico. Esso si esplica, sì, attraverso una forte lotta contro la repressione ma all’interno del quadro istituzionale e delle compatibilità economiche. Essi si scontrano con le conseguenze economiche e sociali che il capitalismo produce continuamente ma non vanno alla fonte dei guai che esso produce in modo esponenziale. Dovrebbero mettere in dubbio il sistema…….

Lo sappiamo benissimo tutti che quelle istituzioni che tu citi non sono eliminabili se non per via rivoluzionaria violenta e, non è detto che – ipoteticamente – ci si riesca; può essere benissimo che il capitalismo riesca a rimandare a casa a bastonate una grossa marea rivoluzionaria…è già successo.

Il problema è che i no-global non si vogliono attrezzare per alcun tipo di battaglia rivoluzionaria contro quel tipo di istituzioni…e nemmeno contro altre. Ed è giusto, per un tipo di forza come quella, figlia di questa realtà, che sia così: è coerente.

Volere un mercato globale etico resta pur sempre, in fondo, un sogno imperialista…

No, se partisse da una base di suddivisione equa del territorio in base alla poplazione residente, si strutturasse la convivenza con piccole comunità gestite a breve e a stretta democrazia.

Si dovrebbe riformare il sistema bancario e la gestione delle risorse.

Penso che queste due cose implichino la guerra di classe, però.

Vabbè, comunque quello che volevo dire è che l’anarchia non rifiuta “il mercato globale” non oligarchico. L’assenza di comunità statali garantirebbe l’assenza di oligarchie forti. La politica è territorio. Anche se oggi sembra una bestemmia.

Secondo me l’anarchismo non si pone mai come seria alternativa perché esclude ogni forma di politica organizzata.

Cosa si intende di preciso per “organizzazione”?

A me sembra che si ponga al centro i concetti di gerarchia e centralizzazione, e se ne fa l’essenza del principio di organizzazione. Ovvero, mi pare si creda che ove non vi siano funzioni stabili di leadership riconosciute ad un ente o a una persona, e dove non vi siano diramazioni dal centro alla periferia di istruzioni cui conformarsi, non può esservi organizzazione.

Al contrario si potrebbe sostenere che una buona autogestione (che è il principio libertario) richiede talenti organizzativi in misura notevolmente superiore a qualunque struttura di natura gerarchica, per la finezza dei processi decisionali che si rendono necessari e per l’enfasi che si pone su ciò che fonda e rende possibile una buona comunicazione tra gli individui.

Oltre a ciò, io considero il principio dell’autogestione infinitamente più attuale della centralizzazione (che trova la sua suprema consacrazione nella forma partito). I partiti per loro natura generano una loro bigotteria interna (di cui nel mio saggio ho fatto la parodia, quando ho descritto le kermesse “trotzkiste”) rispetto ai quali la gente ha oggi un sano senso di ripulsa, e quando non ce l’ha è perché è alla ricerca dell’ennesima Chiesa cui affiliarsi per risolvere i suoi problemi esistenziali (qualcuno magari che viene dai buddisti e che tra due anni sarà un ufologo). L’autogestione chiede alla gente una condivisione di valori fondamentali e di una prospettiva di rivoluzione, ma incoraggia l’individualismo nel senso di non proporre modelli comportamentali ed incoraggiare la gente ad essere ciò che è. Le gente che entra in una rete libertaria non si sente oppressa dalle decine di messaggi subliminali secondo cui il principio di “bravo compagno” corrisponde a stilemi di comportamento preprogrammato e a fedeltà verso le burocrazie di partito che, in un modo o nell’altro, non fanno che esigere compromessi “tattici” con i propri principi, con il risultato che dopo tre o quattro anni il partito che hai contribuito a creare, chissà come, è finito nelle mani di Franco Giordano o Gennaro Migliore. La rete libertaria, per il primato che assegna ai valori etici, rispetto all’intelligenza strategica, offre insostituibili vantaggi: permette alla gente la liberatoria esperienza di essere ciò che è, e rende l’organizzazione non scalabile. Quanto alla necessità di essere efficienti in condizioni sfavorevoli occorre ricordarsi che gli anarchici sono stati i migliori combattenti della guerra civile spagnola.

Risposta: rispetto ad un partito politico qualsiasi, meno gerarchia e un pò di centralizzazione (ripartizione dei compiti) in più , per quanto mi riguarda.

Gruppi anarchici che ho conosciuto nel mio cammino anni fa non solo sono centralizzati, ma pure gerarchici e con una buona dose di autoritarismo. Non puoi discutere con loro se non nei loro esclusivi termini. Esattamente come ogni forza e forma politica/organizzativa, ecc.

Senza togliere nulla alla validità della risposta che ripropone la vecchia polemica anarchici-marxisti sulle forme organizzative, vedo nel rifiuto “della gente” ad ogni forma di partito una forma di pericoloso qualunquismo, perché quel rifiuto non è contro dei partiti determinati (ma magari anche tutti!), ma verso ogni forma di partecipazione alla vita pubblica, sociale. Mi riferisco alla stragrande maggioranza dei nostri concittadini che rifiutano ogni impegno perché hanno votato il capitalismo che li sommerge di beni di consumo.

Uno: vedo nel rifiuto “della gente” ad ogni forma di partito una forma di pericoloso qualunquismo, perché quel rifiuto non è contro dei partiti determinati (ma magari anche tutti!) ma verso ogni forma di partecipazione alla vita pubblica, sociale. Mi riferisco alla stragrande maggioranza dei nostri concittadini che rifiutano ogni impegno perchè hanno votato il capitalismo che li sommerge di beni di consumo….

….senonché la discussione verteva sul movimento no-global, che pur rifiutando strutture gerarchiche e centralizzate, è stato l’unico antidoto che la nostra società ha prodotto negli ultimi anni contro il qualunquismo. Quando i comunisti hanno oscillato tra la frode del parlamentarismo (PDCI + RC) ed esperienze di microgruppi che sollecitano più che altro l’interesse dello studioso del folkore.

Il movimento no-global è riuscito ad ottenere che i summit del G8 e del WTO si debbano tenere in dittature del terzo mondo dove è inconcepibile che si tengano le oceaniche dimostrazioni di protesta che ci sono oggi, in analoghi appuntamenti, nei paesi democratici, e che hanno conseguito un enorme potenziale di delegittimazione.

Negli stessi anni il massimo risultato ottenuto dal movimento comunista internazionale è stato l’elezione di Bertinotti a presidente della Camera. Cosa è maggiormente foriero di qualunquismo?

Due:

1-chiamalo pure antidoto. Ma è un antidoto scarso, se la montagna ha partorito sto topolino…..

2-tra i no global c’è gerarchia, c’è settarismo come altrove….

3-i comunisti (nel senso di gente che fa la rivoluzione) non esistono più. È da mò che ne stiamo parlando….

Eravamo d’accordo sul fatto che si tratta di marketing, no? Lo hai detto chiaramente nel tuo saggio.

Non facciamo come il Berlusca che vede comunisti anche fra i preti….!

4- organizzare manifestazioni pubbliche nei paesi dittatoriali talvolta può essere una provocazione, tanto per far arrestare e massacrare meglio gli oppositori….questo l’ho imparato da giovane.

5-Non so dove tu veda un “movimento comunista internazionale”; onestamente non lo vedo. Sono decenni (parecchi) che non esiste più.

1-La trasversalità sociale, cioè il fatto che dentro ci fossero cattolici, comunisti, libertari, ecologisti, eccetera. La confusione delle risposte ad un vero problema posto dalla internazionalizzazione del capitalismo.

Io invece vedrei questo aspetto come un possibile punto di forza del movimento. Esso potrebbe infatti portare al superamento delle differenze politiche e culturali per la creazione di una linea d’azione unitaria del movimento.

Il problema, per quanto vedo e conosco del movimento no-global, è che mi pare si sia per ora lontano da questo obiettivo. Anche senza basarsi sui dato di una (dis)informazione che tende a ad accendere il riflettore solo sui gruppi più radicali per incrminare l’intero movimento, è abbastanza evidente che siamo davanti ad una manifestazione di più nature, collegate fra loro da esponenti di spicco che non sempre riescono a svolgere il ruolo di “unificatori” (pensavo a figure come Don Vitaliano, per intenderci).

Se poi osserviamo il movimento dal punto di vista politico, ecco che molte delle critiche espresse da Uno mi risultano comprensibili. Ma è, appunto, il punto di vista politico, che è un modo di analizzare il movimento ma non l’unico.

È stato fatto notare da Due come i risultati ottenuti dal movimento, se comparati a quelli dei movimenti politici di sinistra, siano più rilevanti. Dato che è difficilmente contestabile, ma in questa rilevanza (resa possibile paradossalmente anche dalla crminializzazione operata dalla disinformazione) io non vedo ancora proposte concrete, ma solo una forte volontà di affermazione e di denuncia di quello che è lo stato delle cose sotto al velo dei vari G7, G8 e compagnia.

Tre: quali sono i più rilevanti risultati ottenuti?

….per farti un esempio contrario, mi basterebbe ricordarti che suffragio universale e diritti dei lavoratori sono state conquiste universali e più importanti…..ottenute dal movimento operaio, socialista ma anche liberale…e i diritti dell’uomo?

Dal mio punto di vista non esiste solo il fattore politico nel movimento no-global, o meglio, non DOVREBBE esistere solo quello, giacché buona parte del movimento è comunque schierata.

Facendo un paragone molto tirato con il 1968, allora fu rivoluzione politica e culturale, e anche se spesso i due aspetti andarono a convergere alcuni elementi erano eminentemente dell’uno o dell’altro.

Leggendo in quest’ottica il movimento no-global, rileviamo non solo il motore politica, ma anche quello sociale e quello ambientale. Possono, sì, confluire concretizzandosi in un solo schieramento politico, ma la diversificazione delle componenti politiche del movimento da te stesso rilevata dovrebbe far riflettere sugli altri aspetti. Sempre secondo me, ovviamente.

Uno: comunisti (nel senso di gente che fa la rivoluzione) non esistono più. È da mò che ne stiamo parlando….

Eravamo d’accordo sul fatto che si tratta di marketing, no? Lo hai detto chiaramente nel tuo saggio.

Non facciamo come il Berlusca che vede comunisti anche fra i preti….!

Ci sono due modi di interpretare questo passo. Il primo è di prenderlo alla lettera, ed in questo caso sottolineo il paradosso di proiettare dubbi sull’energia e sull’efficacia del movimento no-global in nome di un comunismo di cui si riconosce che ha persino cessato di esistere.

Il secondo è un tentativo “tattico” di mettere fuori dallo spettro di osservazione gli aspetti più discutibili e degradanti dell’attuale esperienza comunista, come la carriera politica di Fausto Bertinotti, mentre io non ho sostenuto che l’esperienza che tu hai fatto con un gruppo di anarchici fosse priva di valore. Avrei potuto dire anch’io che tu hai conosciuto solo libertari da operetta.

È vero che io ho detto che il comunismo attuale è inautentico, nella sua mera essenza di marketing politico, ma ho anche detto (vedi i miei precedenti riferimenti alla conquista di RF da parte di personaggi come Giordano e Migliore) che si tratta della inevitabile evoluzione (involuzione) di forme organizzative, tipicamente comuniste, che enfatizzano principi leaderistici e centralistici, che infine penalizzano l’onestà a favore del cinismo carrieristico. Se io mi rifiuto di andare a Porta a Porta, mentre Bertinotti ci va strisciando la lingua per terra, nell’attuale mercato videocratico del voto chi credi che prenderà più voti lui o io? e chi credi che avra un capitale di consenso (per quanto fatuo, come quello espresso attraverso la delega parlamentare) lui o io? E se io mi rifiuto di mentire alle persone culturalmete meno avvertite d me, mentre lui lo fa senza scrupoli, chi ha migliori frecce al suo arco in un congresso di partito lui o io? Non credi che in organizzazioni come quelle (dove è sempre questione di decidere la cosiddetta “linea”) il destino dei Bertinotti di ogni tipo è quello di stare in maggioranza, mentre il destino di quelli come me è rimanere in minoranza?

….organizzare manifestazioni pubbliche nei paesi dittatoriali talvolta può essere una provocazione, tanto per far arrestare e massacrare meglio gli oppositori….questo l’ho imparato da giovane.

No, l’ultimo vertice del WTO si è tenuto a Doha semplicemente perché si tratta di eventi ormai impresentabili là dove le manifestazioni di protesta possono essere tenute, perché l’immagine arrogante e compiaciuta dei signori del commercio globale ne risulta fatta a pezzi.

@Due: io non parlo in nome di un comunismo, parlo a titolo personale nel quale titolo c’è anche la conoscenza marxista. Ti ho parlato a nome del comunismo? ho portato un paragone tra i 2 movimenti e anche quello libertario/anarchico, perché ci sono echi dell’antico dibattito sull’organizzazione.

Io Bertinotti non lo considero nemmeno comunista, al pari del Papa che vorrebbe essere cristiano: c’è discrepanza tra ciò che si crede o si vuole far credere di essere e ciò che si è.

…libertari da operetta proprio no. Riconosco loro coerenza, anche utilità controinformativa, ma hanno le tare di tutte le formazioni politiche.

mah, su Bertinotti, Rifondazione eccetera, sfondi una porta aperta. Potrei sciorinarti un pò di critiche al vetriolo anch’io.

Ma mi sembra di aver capito che una “linea” ce l’hai anche tu. E allora, come la mettiamo? Quale linea prevarrebbe in un consesso assembleare, per esempio? E con quali mezzi? Lo sappiamo, vero, che le nostre dichiarazioni di principio non sono una garanzia alle degenerazioni?

@Tre: ho capito.

Io credo, forse sbaglio, che gli interessi in quel contesto siano inconciliabili.

Uno:

Ma mi sembra di aver capito che una “linea” ce l’hai anche tu. E allora, come la mettiamo? Quale linea prevarrebbe in un consesso assembleare, per esempio? E con quali mezzi? Lo sappiamo, vero, che le nostre dichiarazioni di principio non sono una garanzia alle degenerazioni?

Io non ho nessuna “linea”, io ho solo un’aspirazione di cambiamento radicale, condivisa con altri milioni di persone. A ciò io aggiungo una visione economica, Parecon, cioè un insieme di principi che rispondono alla domanda: “come si può far funzionare un’economia complessa non di mercato, che assicuri equità ed un rapporto non alienato con il lavoro, senza compromettere (anzi incrementando in efficacia e razionalità) i processi di produzione e distribuzione delle merci”? In questo senso non si tratta affatto di una “linea” perché non contempla affatto gli aspetti tattici della lotta politica, come sono normalmente intesi dai partiti.

Quanto alla domanda: quando ci sarà una Parecon? La risposta è molto semplice: quando si sarà convinto il numero sufficiente di persone della sua validità. E l’apparente semplicismo di questa risposta serve almeno a chiarire che non ci sarà una minoranza di “avanguardia” che decida anche per gli altri, in nome di qualche versione aggiornata del concetto di “dittatura del proletariato”.

Altri dubbi in proposito non possono essere affrontati senza entrare approfonditamente nell’argomento Parecon. Comunque ho già spiegato, per quanto riguarda le istanze assembleari, che i Soviet del 1917 costituiscono una buona fonte di isperazione, anche se inevitabilmente ingrigita.

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