Airbnb, gentrificazione, processi economici.

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Molti sono i miti che circondano Airbnb (sintesi tra sharing economy e platform capitalism) e il suo essere “nuovo” piuttosto che conveniente sul piano dell’offerta commerciale e nell’intercettare le esigenze dei consumatori. Certamente Airbnb è, in qualche misura, conveniente sia per il consumatore che per il proprietario o gestore di immobili che si trovano a pagare una commissione contenuta nel momento dell’instaurazione del rapporto commerciale di compravendita del servizio.

Airbnb è coinvolto nel processo di gentrificazione, cioè in quel processo di trasformazione delle zone popolari in zone di pregio. Spesso Airbnb ci viene presentato come il fautore di una deregulation socioeconomica da respingere a prescindere da qualsiasi altra valutazione razionale del fenomeno. Tuttavia, Airbnb non è la causa del processo di deregulation in atto, ma ne è l’effetto e scambiare le cause con gli effetti non porta mai bene quando si deve analizzare un fenomeno. Colpire l’effetto senza risalire alla causa sarebbe deleterio. Peraltro, abbondano gli strali contro la piattaforma online, con velati richiami al sabotaggio della stessa, mentre finiscono nel dimenticatoio le critiche alle istituzioni pubbliche che non solo hanno creato il quadro dentro il quale questi tipi di offerte commerciali hanno potuto proliferare, ma addirittura impongono balzelli sul lavoro non svolto da loro bensì dagli operatori del settore e dalle piattaforme online che, in fatto di commercializzazione del prodotto turistico, sono avanti anni luce rispetto a qualsiasi iniziativa del settore pubblico.

Come accennato, Airbnb nasce in un contesto di deregulation fatto proprio dalle istituzioni sia locali che nazionali, come esito di un lungo processo di de-industrializzazione occorsa a Occidente, con inizio negli anni ’70 del secolo scorso, che ha portato agli effetti che vediamo dispiegarsi pienamente solo in questi ultimi anni. Il patto sottostante il fenomeno Airbnb è quello fondativo della fase storica attuale, che si caratterizza sul patto tra proprietari, rispetto a quella precedente fondata sul patto tra produttori.

Dobbiamo, peraltro, ricordare che il processo che va sotto il nome di turistificazione è stato reso possibile da uno sviluppo economico senza precedenti seguito al secondo conflitto mondiale, il quale ha visto quello sviluppo anche nei conseguenti stili di vita che si profilavano nelle vite dei cittadini che si trasformavano via via in consumatori. Tuttavia, il turismo è diventato di massa, ma non per tutti. Infatti, se è vero come è vero che il mercato non soddisfa bisogni, ma domande (ovvero quelle necessità munite di denari) allora è anche vero che il turismo è parte di una domanda globale che contiene, esattamente come il mercato di cui è figlia, una parte-limite, un orizzonte esclusivista.

Lo stile di vita, quindi, è parte di una cultura che deve sostenere e giustificare la produzione di beni e servizi. Quella del turismo è diventata così un’industria importantissima, forse la più grande al mondo, anche grazie alla formazione di una cultura della libertà consumistica.

Da qualche parte si sono levate delle voci allarmate intorno al processo di turistificazione in quanto processo monocolturale. La turistificazione, allora, può essere vista come una monocoltura? È improbabile, non credo vi si possa applicare il punto di vista del settore agricolo, piuttosto il turismo diventa un modo efficace e vasto di raccogliere profitti da reinvestire in altre attività, più o meno produttive. Nel senso che gli istituti finanziari beneficiano di questi flussi, reinvestendoli poi come da loro prassi “naturale”. Possiamo, tuttavia, anche verificare che le istituzioni pubbliche, con l’imposizione delle tasse di soggiorno, o tourist tax, non fanno che beneficiare, più o meno direttamente e senza contropartite, di questo trend governato direttamente dalle grandi OTA, cioè dai grandi operatori online del settore.

Anche qui, tuttavia, la scelta della cosiddetta “monocoltura” che abbiamo visto essere una definizione tirata per i capelli, non è la causa dei rischi che ne potrebbero conseguire, ma l’effetto di un processo di desertificazione industriale e commerciale del tessuto precedente.

I processi di infrastrutturazione sono importanti, ma non essenziali per la turistificazione del territorio, poiché anche territori relativamente isolati possono diventare meta di pellegrinaggio turistico e solo in seguito migliorare la propria condizione infrastrutturale.

I piccoli o grandi eventi ed il loro conseguente processo di costruzione di un market target, sono decisamente importanti per la riuscita della turistificazione e ci raccontano con chiarezza che la libera concorrenza in quanto fenomeno dell’economia capitalista si appropria di tutti i settori dell’economia.

Non vi è, inoltre, una reale contrapposizione tra istituzioni pubbliche e imprese private, poiché anche le prime hanno subito quelle tipiche trasformazioni del capitalismo occidentale de-industrializzato, orientandosi quindi verso i profitti piuttosto che verso l’interesse collettivo e verso la finanza piuttosto che verso i beni e i servizi tangibili. Come già osservato sopra, anche le istituzioni locali con l’imposizione di tasse e balzelli, adempimenti obbligatori e controlli, raccolgono denari da reinvestire poi in attività non sempre auspicabili o condivisibili come quelle finanziarie.

Dobbiamo qui ricordare che, in definitiva, è il settore pubblico a comandare anche su quello privato, in virtù delle leggi a cui tutti dobbiamo conformarci, mentre il settore privato viene di volta in volta utilizzato come “valvola di sfogo” per le inefficienze del pubblico, espediente per dirottare fondi pubblici, luogo dove realizzare profitti o redistribuire reddito grazie alle esternalizzazioni e via elencando. Quello tra pubblico e privato, allora, pare essere un mero, ma fondamentale, rapporto socioeconomico da regolamentare per il bene dei profitti. Anche se, in fondo, è sempre il pubblico ad avere il pallino in mano, a poter decidere le sorti – attraverso la legislazione – della collettività.

Conseguenza di tutto ciò è piuttosto un’inequivocabile degrado del patrimonio culturale, economico e sociale di quello che usiamo chiamare servizio pubblico. Dopotutto, questo è il portato dei tempi: se anche il pubblico deve cercare profitti, ne va adeguata la propensione culturale e le linee guida strategiche nei rapporti con l’utenza.

Si sostiene, inoltre, che la turistificazione di cui Airbnb è il nuovo alfiere, modifichi la presenza di attività commerciali ed artigianali in quelle zone delle città dove il fenomeno della gentrificazione è più marcato. Può ben essere, ma fino ad un certo punto. Anche qui confondiamo l’effetto con la causa. L’entrata di Airbnb ed altre OTA nel mercato locale di ogni singola città ha a che fare con la ricerca di profitti certamente più consistenti, facili e ottenuti con un bene (l’immobile) già prodotto e mercificato. La produzione di beni e servizi si orienta, per definizione, dove si possono realizzare migliori profitti, avendo il mercato stesso lo scopo di adeguare la produzione alla domanda.

Questa dinamica provoca, conseguentemente, un innalzamento dei canoni di affitto di abitazioni e locali commerciali, nonché del prezzo delle merci in vendita. Ma, in un certo senso è l’uovo di colombo tanto ricercato per far “ripartire il mercato” sia immobiliare che non. Quello immobiliare per ovvie ragioni intrinseche al fenomeno fin qui descritto; i settori extra-immobiliari perché – volente o nolente – tutti possono beneficiare del giro di soldi che si crea attorno all’incremento o alla semplice stabilizzazione del fenomeno turistico.

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